Una sentenza chiarisce i limiti della CILA: non basta per interventi che alterano volumetria o struttura. Anche opere datate possono essere demolite se prive del titolo edilizio corretto.
Nel complesso panorama dell’edilizia italiana, distinguere tra una semplice variazione interna e un intervento di ristrutturazione “pesante” non è solo una questione tecnica, ma può fare la differenza tra un’opera legittima e un abuso edilizio. La recente sentenza del TAR Lazio ha riacceso il dibattito su quali siano i reali confini d’uso della CILA – la Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata – e quando, invece, sia necessario ricorrere a strumenti più rigorosi come la SCIA o il permesso di costruire.
Il caso esaminato riguarda una modifica interna ad un appartamento, realizzata diversi anni prima, attraverso la chiusura di una loggia e l’ampliamento del soggiorno. Un intervento che, secondo chi l’ha realizzato, non avrebbe comportato un effettivo aumento volumetrico, e che quindi rientrerebbe nelle tolleranze costruttive.
Ma per il TAR le cose stanno diversamente: l’opera è abusiva e va demolita.
Questo porta a interrogarsi: fino a che punto una semplice CILA può legittimare lavori in casa? È davvero possibile invocare la tolleranza costruttiva per modifiche già esistenti? E cosa succede se l’opera è stata compiuta anni fa e l’attuale proprietario è diverso?
Advertisement - PubblicitàLa vicenda esaminata dal TAR Lazio ha origine in un intervento edilizio effettuato diversi anni fa su un appartamento in un edificio residenziale della Capitale. L’intervento consisteva nella chiusura di una loggia, ovvero uno spazio esterno coperto e delimitato da una grata, e nella sua annessione al soggiorno interno, ottenendo così un ampliamento della superficie abitabile.
L’opera era stata giustificata dalla parte esecutrice tramite la presentazione di una CILA (Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata), uno strumento pensato per interventi di manutenzione straordinaria che non modificano i volumi e non incidono su parti strutturali dell’immobile. Tuttavia, secondo l’Amministrazione comunale, l’intervento in questione comportava una trasformazione dell’assetto originario dell’unità immobiliare, con alterazione della sagoma e un incremento della volumetria: condizioni che richiedono un permesso di costruire, o al limite una SCIA alternativa.
Nel tempo, l’immobile è stato venduto, ma ciò non ha impedito al Comune di intervenire. A seguito di un controllo della Polizia Locale, attivato dopo la richiesta di altri titoli edilizi da parte dei nuovi proprietari, è stato redatto un verbale che ha accertato l’alterazione dello stato dei luoghi rispetto al progetto originario. In base a queste risultanze, il Comune ha emesso una ordinanza di demolizione, intimando il ripristino dello stato precedente.
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La persona coinvolta ha impugnato il provvedimento, sostenendo che:
Il TAR ha esaminato questi argomenti, ma ha ritenuto il ricorso infondato, confermando la legittimità dell’ordine di demolizione emesso dal Comune.
Advertisement - PubblicitàCon la sentenza n. 10337/2025, pubblicata il 28 maggio 2025, il TAR del Lazio ha fornito una lettura rigorosa e chiarificatrice delle norme in materia di abusi edilizi, ribadendo confini netti tra ciò che può essere sanato o tollerato e ciò che, invece, richiede l’adozione di titoli abilitativi ben più stringenti.
Secondo il Tribunale, l’intervento contestato – la chiusura di una loggia esterna e il suo accorpamento al soggiorno – rappresenta a tutti gli effetti un ampliamento planivolumetrico dell’unità abitativa, tale da configurarsi come una vera e propria “ristrutturazione edilizia pesante”. Un’opera simile non può essere legittimata tramite una semplice CILA, poiché comporta una modifica sostanziale dell’organismo edilizio preesistente.
In casi come questo, è necessario un permesso di costruire o, al massimo, una SCIA alternativa, strumenti che implicano una diversa procedura, con valutazioni tecniche e urbanistiche approfondite.
Il TAR ha escluso la possibilità di invocare l’art. 34-bis del DPR 380/2001 sulle “tolleranze costruttive”, norma che può essere utilizzata solo per minime variazioni materiali sorte in fase esecutiva, e che non può essere estesa ad opere nuove e strutturalmente difformi rispetto al progetto originario. Come ha ricordato il giudice, le tolleranze sono ammesse solo per difformità irrilevanti, spesso impercettibili, avvenute nella fase costruttiva, e non per modifiche realizzate successivamente e in totale assenza di titolo edilizio.
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Un altro punto chiave della sentenza è il rigetto del principio di legittimo affidamento: il fatto che l’opera sia rimasta “in silenzio” per anni non la rende sanabile né protegge l’ex proprietario dalle conseguenze legali. In base alla giurisprudenza consolidata, anche un ordine di demolizione notificato a distanza di tempo conserva la sua piena validità, purché l’opera sia abusiva e mai autorizzata. Il TAR ha inoltre confermato che, trattandosi di un provvedimento vincolato al ripristino della legalità urbanistica, non era necessario motivare ulteriormente l’ingiunzione, né valutare l’interesse del privato al mantenimento dell’opera.
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Infine, anche il tentativo della ricorrente di invalidare l’ordine per vizi procedurali – come la mancata indicazione del termine di chiusura del procedimento – è stato respinto, poiché considerato un vizio non invalidante, soprattutto in presenza di una comunicazione di avvio del procedimento che concedeva comunque termini per intervenire nel processo amministrativo.
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