Una SCIA edilizia contestata da un vicino è stata giudicata legittima: il Consiglio di Stato ha ribadito che senza un danno concreto, la sola vicinanza non giustifica il ricorso.
Negli ultimi anni, i conflitti tra vicini in materia edilizia si sono moltiplicati, specialmente nei centri storici dove ogni modifica urbanistica può incidere su luce, privacy e armonia architettonica. Ma fino a che punto un cittadino può opporsi a un intervento edilizio che avviene in un immobile adiacente al proprio? E quali elementi sono davvero necessari per far valere il proprio diritto davanti a un giudice amministrativo?
Una recente sentenza del Consiglio di Stato offre un’importante chiave di lettura su questo tema: non basta più la semplice “vicinitas” — ovvero l’essere confinanti o prossimi — per poter impugnare una SCIA edilizia. Serve qualcosa di più: un pregiudizio concreto, attuale e dimostrabile.
La pronuncia, che conferma il rigetto di un ricorso proposto contro alcuni lavori edilizi regolarmente autorizzati, rappresenta un punto fermo per interpretare correttamente i limiti dell’interesse legittimo in campo urbanistico.
Ma cosa è accaduto nello specifico? Quali argomentazioni sono state portate davanti ai giudici? E perché la distanza tra edifici e la semplice perdita di visuale non sono state ritenute sufficienti?
Sommario
Il caso prende le mosse da un intervento edilizio realizzato in un edificio del centro storico, oggetto di una SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) presentata per operazioni di restauro e risanamento conservativo. L’intervento comprendeva il recupero a fini abitativi del sottotetto e l’installazione di un ascensore condominiale, con alcune modifiche volumetriche che includevano lo spostamento di strutture esistenti.
L’operazione era stata approvata dalla Commissione comunale per la qualità architettonica e il paesaggio e rientrava, almeno formalmente, nelle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti, in particolare il RUE (Regolamento Urbanistico Edilizio) del Comune interessato. Le norme regionali di riferimento erano invece la L.R. Emilia-Romagna 15/2013, che disciplina la disciplina edilizia, e la L.R. 5/2014, sul recupero del patrimonio edilizio esistente.
Tuttavia, l’intervento è stato contestato da un cittadino che abitava a poca distanza dallo stabile in questione, sostenendo che i lavori, in realtà, non si configurassero come un semplice restauro conservativo, ma costituissero una ristrutturazione edilizia vera e propria, non consentita nella zona storica secondo le norme locali.
A suo dire, l’operazione avrebbe introdotto nuove volumetrie e un impatto architettonico incompatibile con il contesto tutelato, in violazione anche delle Norme Tecniche delle Costruzioni (NTC 2018) e delle norme sulle distanze legali tra edifici.
Advertisement - PubblicitàIl cuore del ricorso amministrativo ruotava attorno a un principio ricorrente nelle controversie edilizie: il diritto alla tutela dell’ambiente domestico e alla conservazione delle condizioni di vivibilità originarie. Il cittadino che ha impugnato la SCIA sosteneva che l’intervento approvato dal Comune avesse compromesso elementi fondamentali come l’accesso alla luce naturale, la ventilazione e la riservatezza della propria abitazione.
Secondo quanto sostenuto nel ricorso, le nuove finestre create con il recupero del sottotetto avrebbero aumentato in modo sensibile la possibilità di affaccio e visione diretta verso la sua proprietà, causando un impatto diretto sulla privacy. Allo stesso tempo, si lamentava che la maggiore altezza dell’edificio e la nuova sagoma avrebbero comportato una diminuzione della luce naturale e della qualità ambientale nell’abitazione del ricorrente.
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Ma non solo: secondo la sua tesi, l’intervento avrebbe anche determinato un deprezzamento dell’immobile, alterando l’armonia edilizia e paesaggistica del centro storico.
In sintesi, l’ampliamento realizzato – a suo dire – non solo travalicava i limiti imposti dalle normative locali, ma produceva un danno diretto e personale, quindi sufficiente a fondare un interesse legittimo a ricorrere.
Advertisement - PubblicitàUno degli aspetti più rilevanti della decisione del Consiglio di Stato riguarda la valutazione dell’interesse ad agire, concetto centrale nel diritto amministrativo. I giudici hanno ribadito un principio già affermato in passato – in particolare con la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 22/2021 – secondo cui il semplice fatto di essere vicini a un intervento edilizio non è sufficiente, da solo, a fondare il diritto a presentare ricorso contro il relativo titolo abilitativo.
La cosiddetta “vicinitas”, cioè il legame spaziale tra il ricorrente e l’immobile oggetto dei lavori, è condizione necessaria, ma non è più considerata condizione sufficiente. È infatti indispensabile che chi ricorre dimostri anche di subire un pregiudizio diretto, concreto e attuale derivante dall’intervento edilizio. In mancanza di tale dimostrazione, il ricorso è da considerarsi inammissibile, a prescindere dalle eventuali irregolarità riscontrate nei lavori contestati.
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Nel caso esaminato, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il ricorrente non avesse provato l’esistenza di un danno reale, né fornito elementi tecnici o oggettivi idonei a dimostrare una lesione specifica e personale dei propri interessi.
Al contrario, gli atti e le perizie hanno dimostrato che l’intervento edilizio non ha peggiorato la situazione preesistente, né sotto il profilo visivo né rispetto alla privacy o alla distanza tra edifici.
Advertisement - PubblicitàAnalizzando nel dettaglio la documentazione tecnica e le ricostruzioni tridimensionali presentate in giudizio, il Consiglio di Stato con la sentenza n° 3798 del 2025 ha rilevato come la distanza effettiva tra gli edifici fosse di 23 metri – non 17 come sostenuto dal ricorrente – e come il fabbricato oggetto dei lavori fosse posizionato a due piani di altezza superiore rispetto all’immobile da cui partiva la contestazione.
Questo assetto, secondo i giudici, rendeva del tutto implausibile l’esistenza di un reale pregiudizio in termini di luce, aria o privacy.
Inoltre, il progetto edilizio oggetto della SCIA – lungi dal peggiorare la situazione preesistente – aveva in parte migliorato l’impatto visivo dell’edificio, rimuovendo volumi disordinati e superfetazioni contenenti anche materiali pericolosi come l’amianto.
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Da ciò è derivata la conclusione che non vi fosse alcun danno concreto né una lesione significativa agli interessi del ricorrente, rendendo inammissibile il ricorso già in primo grado.
Di conseguenza, il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello e confermato la sentenza del TAR, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese legali a favore del Comune e della controparte privata, per un importo complessivo di 8.000 euro oltre accessori di legge.