Il TAR conferma il potere del GSE di revocare incentivi energetici già concessi in caso di documentazione carente, tutelando l’interesse pubblico e la correttezza della spesa statale.
Nel complesso sistema degli incentivi statali per l’efficienza energetica, i Certificati Bianchi rappresentano uno degli strumenti più strategici e controversi. Introdotti per promuovere interventi di risparmio energetico presso gli utenti finali, questi titoli premiano le imprese che realizzano progetti conformi alle linee guida ministeriali.
Ma cosa accade quando, a distanza di tempo, emergono dubbi sulla correttezza della documentazione presentata?
Il recente pronunciamento del TAR del Lazio, con la sentenza n. 4281/2025, ha fatto chiarezza su un punto cruciale: il GSE può revocare i TEE già concessi e richiederne la restituzione se le verifiche successive evidenziano carenze documentali rilevanti.
Il caso trattato ha sollevato interrogativi importanti su affidamento legittimo, retroattività delle norme, e soprattutto sui limiti – o l’assenza di limiti – dei poteri di controllo dell’amministrazione. È possibile fidarsi di un incentivo approvato? E quando il beneficiario è davvero al sicuro da un recupero a posteriori?
Sommario
La vicenda ha origine nel 2016, quando la società ricorrente ha presentato cinque Richieste di Verifica e Certificazione (RVC) relative a interventi di efficientamento energetico in edifici esistenti. Le domande, valutate secondo il metodo standardizzato previsto dalla normativa vigente all’epoca, vennero accolte dal Gestore dei Servizi Energetici (GSE), e la società ha potuto beneficiare dell’emissione di oltre 3.100 Titoli di Efficienza Energetica, tradotti in incentivi economici significativi.
Tuttavia, più di un anno dopo l’approvazione, il GSE ha avviato un procedimento di controllo volto a verificare la fondatezza delle dichiarazioni contenute nelle schede tecniche. Il risultato? Un provvedimento di annullamento delle RVC e la conseguente richiesta di restituzione degli incentivi percepiti, per un importo complessivo pari a circa 629 mila euro, da versare in un’unica soluzione.
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Alla base della decisione, secondo il GSE, ci sarebbe stata l’assenza di documentazione ritenuta essenziale: mancavano, ad esempio, l’atto di proprietà degli immobili oggetto degli interventi, autodichiarazioni complete dei clienti finali, e dati tecnici sufficienti a dimostrare l’effettiva realizzazione dei lavori e il loro impatto in termini di risparmio energetico.
Advertisement - PubblicitàNel rigettare il ricorso, il TAR ha compiuto una ricostruzione puntuale del quadro normativo vigente in materia di incentivi per l’efficienza energetica. Il cuore della decisione ruota attorno all’art. 42 del D.lgs. 28/2011, il quale attribuisce al Gestore dei Servizi Energetici un potere di verifica non limitato alla fase iniziale di ammissione al beneficio, ma esteso anche al periodo successivo, per accertare la veridicità delle dichiarazioni rese e la regolarità tecnica e amministrativa degli interventi.
Secondo il TAR, tale attività di controllo non deve essere interpretata come un riesame discrezionale (come accade nell’autotutela amministrativa ex art. 21-nonies della Legge 241/1990), bensì come una verifica obbligatoria e vincolata, esercitata nell’interesse pubblico.
Questo significa che il GSE è tenuto ad agire ogniqualvolta emergano elementi che mettano in dubbio la legittimità del riconoscimento del contributo.
La sentenza sottolinea come la mera approvazione iniziale delle RVC non rappresenti una “garanzia assoluta”, bensì l’inizio di un percorso che può includere accertamenti successivi, soprattutto quando si tratta di fondi pubblici destinati a incentivare comportamenti virtuosi in campo energetico.
Il TAR ha inoltre richiamato un principio cardine della disciplina degli incentivi: quello di autoresponsabilità degli operatori. Le imprese che accedono ai contributi devono predisporre un sistema documentale idoneo a giustificare ogni dichiarazione resa, anche a distanza di anni. In questo contesto, la documentazione da conservare, come previsto dalle Linee Guida ARERA (delibera EEN 9/11), costituisce una “categoria aperta” – e non un elenco tassativo – proprio per permettere verifiche efficaci e complete.
Advertisement - PubblicitàUno degli argomenti centrali sollevati dalla società ricorrente riguardava la presunta violazione del proprio diritto alla partecipazione procedimentale, nonché il legittimo affidamento maturato dopo l’approvazione iniziale delle RVC. In sostanza, la società contestava al GSE di non aver tenuto adeguatamente conto delle osservazioni presentate durante il procedimento e di aver agito in modo sproporzionato, richiedendo la restituzione integrale degli incentivi in un’unica soluzione.
Il TAR ha respinto queste censure, chiarendo che il GSE aveva rispettato le formalità procedurali, concedendo proroghe per la produzione documentale e motivando in maniera sufficiente il proprio provvedimento finale.
In particolare, è stato ribadito che la motivazione di un atto amministrativo non deve necessariamente confutare punto per punto tutte le osservazioni dell’interessato, ma è sufficiente che dimostri di averle considerate ai fini della decisione.
Quanto al legittimo affidamento, il Tribunale ha ricordato che, in materia di incentivi pubblici, non si può parlare di affidamento tutelabile se manca la prova della legittimità sostanziale del beneficio. In altri termini, l’affidamento non può prevalere sulla necessità di verificare che i fondi siano stati attribuiti correttamente e sulla base di dati completi e verificabili. Anzi, secondo la giurisprudenza consolidata, l’interesse pubblico alla corretta gestione delle risorse energetiche e finanziarie giustifica controlli rigorosi anche dopo l’erogazione.
Advertisement - PubblicitàUn altro punto decisivo della controversia riguardava la natura delle mancanze documentali riscontrate dal GSE. Secondo la società ricorrente, si trattava di semplici irregolarità formali, non idonee a giustificare l’annullamento delle RVC e la revoca dei TEE già riconosciuti. Il TAR ha invece affermato con fermezza che le omissioni documentali accertate avevano un impatto diretto sulla possibilità di verificare la veridicità delle dichiarazioni rese e, quindi, sulla legittimità del contributo percepito.
In particolare, la mancata trasmissione di documenti come l’atto di proprietà degli immobili, le autodichiarazioni complete dei clienti finali (con indicazione del titolo di disponibilità dell’opera e dell’assenza di altri incentivi) e le visure catastali rendeva impossibile al GSE ricostruire con certezza chi avesse realmente beneficiato degli interventi di risparmio energetico, se questi fossero stati effettivamente realizzati, e se fossero conformi alle condizioni poste dalla normativa.
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Il Tribunale ha chiarito che non si era in presenza di semplici sviste o difetti marginali, ma di mancanze sostanziali, tali da compromettere l’intera struttura informativa su cui si fondava la richiesta di incentivo. In simili casi, secondo la giurisprudenza prevalente, l’Amministrazione ha il dovere di procedere alla decadenza del beneficio, trattandosi di fondi pubblici erogabili solo in presenza di requisiti pienamente verificabili.