Il TAR del Lazio ha confermato il rigetto del condono per opere abusive in area vincolata, ribadendo l’insanabilità degli abusi edilizi in zone protette e l’obbligo di demolizione.
Quando si parla di condono edilizio, si entra in uno dei temi più complessi e discussi del diritto urbanistico italiano. Ancora di più quando l’abuso edilizio riguarda un’area sottoposta a vincoli ambientali e paesaggistici. Una recente sentenza n° 4822/2025 del TAR del Lazio ha fatto chiarezza su un caso emblematico, che coinvolgeva un impianto sportivo situato all’interno di un parco naturale regionale.
L’opera, realizzata senza titolo abilitativo, era oggetto di una richiesta di condono edilizio, respinta dall’amministrazione comunale sulla base della normativa regionale e statale vigente.
Il caso è interessante non solo per le motivazioni giuridiche alla base del rigetto del condono, ma anche per le implicazioni più ampie: è possibile regolarizzare edifici non residenziali costruiti in zone vincolate? Quanto conta il passare del tempo? E cosa succede se nel frattempo si sono avviate attività commerciali?
Scopriamo insieme tutti i dettagli della vicenda e cosa ha stabilito il giudice amministrativo.
Sommario
La vicenda trae origine dalla realizzazione di un complesso sportivo in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico e ambientale, ricompresa nel Parco di Veio. In questo contesto, la società proprietaria dell’impianto aveva edificato, senza titolo abilitativo, diverse strutture: un edificio di circa 120 metri quadri destinato ad attività commerciale, un secondo di 200 metri quadri con funzione sportiva, un volume tecnico e la copertura di una piscina.
Nel 2004 era stata presentata un’istanza di condono edilizio ai sensi del D.L. 269/2003, convertito nella Legge 326/2003, ma il provvedimento di rigetto è arrivato solo nel 2022, ben 18 anni dopo. La lunga attesa non ha però giocato a favore della proprietà. L’amministrazione ha infatti motivato il diniego sulla base della L.R. Lazio n. 12/2004, art. 6, che vieta espressamente la possibilità di sanare abusi edilizi, anche se realizzati prima dell’apposizione del vincolo, qualora gli immobili ricadano in aree soggette a specifica tutela paesaggistica o ambientale, salvo i casi di cosiddetti “abusi minori”.
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Un altro aspetto centrale del caso riguarda la natura degli interventi: secondo il Comune non si trattava di “ampliamenti” su costruzioni già esistenti, ma di vere e proprie nuove edificazioni. Questo ha reso ancora più rigida l’applicazione del divieto di sanatoria. Di conseguenza, anche la successiva attività commerciale esercitata negli spazi oggetto di abuso (e in parte regolarizzata tramite SCIA) è risultata priva di un valido presupposto edilizio.
Il TAR ha confermato la posizione dell’amministrazione, sottolineando come, in presenza di vincoli e in assenza di conformità urbanistica, il condono non possa essere concesso. Né il trascorrere degli anni, né l’avvio di attività economiche possono legittimare ciò che la legge considera insanabile.
Advertisement - PubblicitàIl cuore della questione risiede nella normativa urbanistica e paesaggistica vigente nella Regione Lazio. In particolare, il diniego di condono è stato fondato sull’articolo 6 della Legge Regionale 12/2004, che esclude categoricamente la possibilità di sanare opere abusive realizzate su immobili soggetti a vincoli ambientali e paesaggistici, salvo limitate eccezioni.
La norma è molto chiara: non possono essere oggetto di sanatoria gli interventi eseguiti in difformità o in assenza di titolo edilizio, non conformi agli strumenti urbanistici, su aree sottoposte a tutela paesaggistica o ricadenti in parchi naturali, come appunto il Parco di Veio.
Un ulteriore elemento cruciale riguarda la qualificazione delle opere oggetto di sanatoria. Mentre la società richiedente sosteneva che si trattasse di ampliamenti su manufatti preesistenti, l’amministrazione comunale – e poi il TAR – hanno rilevato che si trattava di nuove costruzioni. Questo è un punto dirimente, perché anche in presenza di vincolo, gli ampliamenti di edifici esistenti e legittimi possono talvolta rientrare nelle ipotesi condonabili.
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Le nuove costruzioni, invece, sono escluse a priori, salvo si tratti di cosiddetti “abusi minori”, che in questo caso non ricorrevano, viste le dimensioni e la natura delle opere.
Non solo: il TAR ha evidenziato che la presenza di un vincolo paesaggistico impone un esame molto più rigoroso delle richieste di sanatoria. La tutela dell’interesse pubblico prevale sul diritto del privato, soprattutto quando l’intervento edilizio altera in modo significativo l’equilibrio ambientale o paesaggistico di un’area protetta.
In sintesi, non è stata la sola assenza del titolo edilizio a determinare il rigetto, ma la combinazione tra la natura dell’intervento (nuova costruzione non residenziale) e la sua collocazione in una zona vincolata, che rendevano l’opera insanabile secondo quanto previsto dalla legge.
Advertisement - PubblicitàA seguito del diniego di condono, l’amministrazione ha adottato un provvedimento conseguenziale: l’ordine di demolizione delle opere abusive. Si tratta di un atto vincolato, previsto dall’art. 31 del DPR 380/2001, che impone il ripristino dello stato dei luoghi ogniqualvolta venga accertata l’illegittimità di un’opera edilizia.
Anche in questo caso, la società ha provato a contrastare il provvedimento, sostenendo l’illegittimità dell’ingiunzione, soprattutto perché emessa mentre era ancora pendente l’appello cautelare contro il rigetto del condono.
Tuttavia, il TAR ha chiarito che l’ordine di demolizione è legittimo, perché l’efficacia del rigetto non era ancora sospesa al momento dell’adozione dell’ingiunzione. Inoltre, ha precisato che una volta che la richiesta di sanatoria viene respinta, l’amministrazione ha l’obbligo di procedere alla demolizione dell’abuso, anche se successivamente l’efficacia di quel rigetto viene temporaneamente sospesa da un giudice.
In questi casi, infatti, non si entra nel merito della legittimità dell’ordine, ma solo nella possibilità (momentanea) di eseguirlo.
Un’altra questione centrale è stata l’annullamento della SCIA con cui era stata avviata un’attività di somministrazione di alimenti e bevande nei locali oggetto dell’abuso. Anche questa è stata ritenuta inefficace: secondo la giurisprudenza, infatti, un’attività commerciale non può reggersi su un fabbricato abusivo. La SCIA — Segnalazione Certificata di Inizio Attività — perde automaticamente efficacia quando si scopre che l’immobile in cui si esercita l’attività è privo di titolo edilizio valido.
Il TAR ha ribadito un principio ormai consolidato: se la base edilizia è illegittima, qualsiasi autorizzazione o comunicazione amministrativa che si innesti su quell’immobile diventa priva di valore.
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Advertisement - PubblicitàUn elemento interessante del procedimento esaminato dal TAR riguarda la presenza di un soggetto terzo che ha partecipato al giudizio in qualità di “interventore ad opponendum”. Si tratta di un vicino, proprietario di un immobile situato in prossimità delle opere abusive, che ha agito per contrastare sia il condono edilizio richiesto dalla società, sia il mantenimento delle attività svolte nei manufatti non autorizzati.
Il principio giuridico che consente tale intervento è quello della vicinitas: un concetto ormai consolidato nella giurisprudenza amministrativa, secondo cui un cittadino può opporsi a un abuso edilizio se dimostra di avere un interesse diretto, concreto e attuale, derivante dalla prossimità fisica dell’immobile rispetto all’abuso contestato.
In pratica, chi vive o lavora accanto a un’opera illegittima ha diritto a far valere in giudizio la lesione dei propri interessi, come la tutela del paesaggio, del decoro urbano o della vivibilità dell’ambiente circostante.
Nel caso specifico, l’intervento del vicino ha avuto un peso concreto nella dinamica processuale. Non solo ha rafforzato la posizione dell’amministrazione, ma ha anche contribuito a sollevare ulteriori elementi critici, come la presunta falsità delle dichiarazioni contenute nelle SCIA commerciali e la mancata menzione di vincoli ambientali nel contesto della richiesta di condono.
Questo episodio ricorda come il controllo del territorio non sia soltanto un compito delle istituzioni, ma possa — e talvolta debba — passare anche attraverso la vigilanza attiva dei cittadini.