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Ristrutturazione edilizia e abusi: quando la CILA non basta e serve il permesso di costruire

Il TAR Lazio ha confermato la demolizione di opere edilizie abusive a Roma, chiarendo quando è necessario il permesso di costruire e respingendo ogni tentativo di frammentazione dell’abuso edilizio.

Ristrutturazione edilizia e abusi: quando la CILA non basta e serve il permesso di costruire Ristrutturazione edilizia e abusi: quando la CILA non basta e serve il permesso di costruire
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Quando si parla di opere edilizie abusive, spesso si pensa a costruzioni clandestine spuntate nel cuore della notte o a palazzi interi nati all’ombra di controlli distratti. Ma in realtà, l’abuso edilizio può nascondersi anche in una semplice porta aperta nel punto sbagliato, in un magazzino trasformato in cucina, o in una veranda che diventa salotto.

È proprio questa la lezione che emerge dalla recente sentenza n° 9783/2025 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, che ha confermato la legittimità di un ordine di demolizione emesso da Roma Capitale.

Il TAR ha valutato un complesso caso di modifiche edilizie realizzate in un immobile romano, respingendo il ricorso dei proprietari e sottolineando con chiarezza come alcune trasformazioni, anche se apparentemente modeste, rientrino a pieno titolo tra gli interventi che necessitano di un permesso di costruire. Nessuno spazio, quindi, per interpretazioni troppo “elastiche” della normativa edilizia.

Quando serve davvero un permesso di costruire? E quali rischi si corrono in caso di opere non autorizzate? È possibile evitare la demolizione se l’intervento è minimo?

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Il caso concreto: la vicenda giudiziaria

La vicenda trae origine da un accertamento eseguito dalla Polizia Locale di Roma e dal successivo sopralluogo tecnico in un complesso immobiliare della Capitale. L’amministrazione ha rilevato numerosi interventi edilizi realizzati senza le necessarie autorizzazioni, tra cui modifiche interne agli ambienti, variazioni dei prospetti, accorpamenti di locali box, ampliamenti e perfino cambi di destinazione d’uso.

Sulla base di questi rilievi, il Municipio competente ha emesso un’ordinanza che imponeva ai proprietari la demolizione delle opere abusive entro 90 giorni. I ricorrenti hanno impugnato il provvedimento davanti al TAR Lazio sostenendo che gli interventi non costituivano trasformazioni urbanistiche rilevanti e che, al massimo, sarebbero stati regolarizzabili con procedure semplificate come la CILA o la SCIA.

Le loro argomentazioni si fondavano su una presunta erronea qualificazione giuridica delle opere e su una presunta sproporzione della sanzione, giudicata eccessiva rispetto alla reale entità degli interventi. Il TAR, però, ha esaminato in modo approfondito l’insieme delle modifiche eseguite e ha concluso che si trattava di una vera e propria trasformazione edilizia priva di titolo abilitativo, confermando la piena legittimità dell’ordine di demolizione.

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Le opere contestate: più di una semplice modifica interna

La sentenza del TAR Lazio ha messo nero su bianco un principio fondamentale: non tutte le modifiche a un immobile possono considerarsi minori o “internamente gestibili”. Anzi, in questo caso, la molteplicità e l’estensione delle opere realizzate hanno configurato un quadro di abuso edilizio strutturato, che non poteva essere derubricato a semplice irregolarità formale.

Nel dettaglio, le opere contestate comprendevano:

  • Accorpamenti e frazionamenti di unità immobiliari: sono stati uniti uffici tramite aperture interne, mentre altre porzioni sono state frazionate e trasformate in unità residenziali autonome, con tanto di accessi indipendenti e nuove funzioni d’uso.
  • Cambi di destinazione d’uso: ad esempio, da uffici a residenze, o da box auto a magazzini funzionali all’attività commerciale (nel caso, un’impresa di onoranze funebri). Secondo la giurisprudenza consolidata, quando il cambio d’uso comporta un impatto urbanistico – ad esempio un incremento del carico urbanistico – serve permesso di costruire.
  • Modifiche dei prospetti: l’apertura di nuove porte-finestre, la sostituzione di finestre con infissi a bandiera, la creazione di nuovi accessi dal cortile privato sono tutti interventi che alterano l’aspetto esterno dell’edificio. In base all’art. 10 del D.P.R. 380/2001 e alla giurisprudenza amministrativa, ciò configura un intervento di ristrutturazione edilizia “pesante”, che non può essere autorizzato con semplici comunicazioni (CILA o SCIA).
  • Realizzazione di nuovi volumi e superfici: una veranda che da circa 10 metri quadrati arriva a coprire quasi 37, rifinita e arredata come soggiorno, rappresenta un chiaro aumento volumetrico. Lo stesso vale per tettoie aggettanti lunghe oltre 20 metri, locali di servizio, pergolati, ripostigli e bagni in muratura edificati nel cortile. Si tratta, a tutti gli effetti, di nuove costruzioni.
  • Accorpamento e trasformazione di autorimesse: i ricorrenti avevano unificato vari box auto (alcuni precedentemente separati) in un unico ambiente, rimuovendo tramezzi interni e modificando l’uso originario. Anche queste operazioni, se non autorizzate, costituiscono violazioni edilizie rilevanti.
  • Alterazione del piano interrato e delle intercapedini: in alcuni casi le intercapedini sono state rimosse, infissi modificati, spazi collegati tra loro in modo da alterarne la funzione e la destinazione.

Il TAR ha ritenuto che l’insieme di queste opere, considerate unitariamente, costituisse una trasformazione complessiva dell’assetto edilizio e funzionale del complesso immobiliare, tale da rientrare nella categoria degli interventi subordinati a permesso di costruire. Nessuna delle giustificazioni tecniche fornite dai ricorrenti – fotografie, perizie, rilievi parziali – è risultata sufficiente a smentire i rilievi della pubblica amministrazione, considerati ben documentati e coerenti.

Infine, il Tribunale ha ricordato che, secondo un principio consolidato, gli abusi vanno valutati nella loro globalità e non spezzettati artificialmente per tentare di minimizzare la gravità dell’intervento. In questo caso, l’amministrazione ha fatto bene a trattare l’intervento come un unico abuso edilizio complesso, che andava sanzionato nel suo insieme.

Leggi anche: Terzo condono edilizio: la Cassazione sui due limiti volumetrici

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Le motivazioni del TAR: cosa dice davvero la legge

Il cuore della decisione del TAR Lazio risiede nell’applicazione rigorosa della normativa urbanistica vigente, in particolare degli articoli 10 e 33 del D.P.R. 380/2001 (Testo Unico sull’Edilizia) e dell’art. 16 della L.R. Lazio n. 15/2008.

Secondo l’art. 10, comma 1, del D.P.R. 380/2001, sono soggetti a permesso di costruire – tra gli altri – gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportano modifiche dei prospetti, cambio di destinazione d’uso tra categorie funzionalmente autonome e aumento della volumetria. L’articolo 33 dello stesso decreto prevede, come sanzione in caso di interventi eseguiti in assenza di tale permesso, l’ordine di demolizione.

Il TAR ha ribadito che per l’emissione di un provvedimento demolitorio non è necessario motivare l’interesse pubblico alla rimozione, né bilanciare questo con gli interessi privati: basta la presenza di opere abusive, realizzate in assenza di titolo. La legittimità dell’ordinanza si fonda sulla constatazione tecnica dell’abuso, accompagnata da un’adeguata descrizione degli interventi.

In questo caso, Roma Capitale ha fornito una documentazione dettagliata, inclusi rilievi, sopralluoghi, fotografie e accertamenti, che hanno confermato l’abusività delle opere. Di contro, la difesa dei ricorrenti – basata in parte su perizie di parte – non è riuscita a confutare in modo sostanziale le risultanze tecniche, né a dimostrare che le opere potessero rientrare tra gli interventi edilizi minori.

Il TAR ha poi richiamato alcune sentenze recenti di altri tribunali amministrativi per rafforzare il proprio orientamento. Ad esempio:

  • TAR Campania, Napoli, n. 4303/2024: l’apertura di porte e finestre è sempre qualificabile come modifica dei prospetti e necessita di permesso di costruire.
  • TAR Emilia-Romagna, Bologna, n. 223/2024: il cambio di destinazione d’uso con modifiche strutturali richiede il permesso, non essendo ammesso con SCIA o CILA.
  • TAR Umbria, n. 104/2024: la realizzazione di nuovi volumi costituisce sempre nuova costruzione e va sanzionata con demolizione se priva di titolo.

Infine, la legge regionale n. 15/2008, all’art. 16, conferma che in presenza di ristrutturazioni edilizie rilevanti o cambi di destinazione d’uso tra categorie urbanistiche diverse, l’amministrazione ha il dovere di ingiungere la demolizione, se manca il permesso di costruire.

In sintesi, il TAR ha ritenuto pienamente legittimo l’operato dell’amministrazione, osservando che la sanzione demolitoria è una conseguenza diretta, automatica e obbligatoria dell’abuso edilizio accertato.

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L’errore del ricorrente: tentare di frammentare l’abuso

Uno degli argomenti principali avanzati dai ricorrenti era che gli interventi edilizi contestati potessero essere analizzati singolarmente, come una somma di opere minori, ciascuna di entità tale da non richiedere un permesso di costruire. È una strategia difensiva molto comune nei ricorsi edilizi: scomporre l’abuso in una serie di piccoli lavori e tentare così di farli rientrare nelle procedure semplificate (CILA o SCIA), evitando sanzioni più pesanti come la demolizione.

Tuttavia, il TAR ha rigettato con fermezza questa impostazione, richiamando un principio giurisprudenziale ben consolidato: gli abusi edilizi devono essere valutati unitariamente. In altre parole, non conta solo il dettaglio tecnico di ogni singolo intervento, ma il quadro complessivo che questi interventi compongono. E in questo caso, il quadro era inequivocabile: un’intera trasformazione del complesso immobiliare, con impatti volumetrici, funzionali e urbanistici rilevanti.

Leggi anche: Demolizione nonostante la sanatoria: conta l’abuso nel suo insieme, impossibile frazionarlo

Il Collegio ha infatti sottolineato come l’opera edilizia abusiva non si identifica con ciascun segmento autonomo, ma con l’intervento complessivo e con le sue ricadute sull’assetto urbanistico. Spezzettare gli interventi per ridurne l’impatto giuridico, secondo il giudice, rappresenta un tentativo “artificioso” e non coerente con la realtà fisica e funzionale dell’immobile.

Questo approccio è stato confermato anche dal Consiglio di Stato, che in una sentenza richiamata dallo stesso TAR ha stabilito che la valutazione dell’abuso edilizio va fatta in base alla visione complessiva del manufatto, tenendo conto dell’effetto aggregato di tutte le opere realizzate, e non del singolo dettaglio costruttivo isolato.

Il tentativo dei ricorrenti di minimizzare la portata delle opere contestate si è quindi rivelato fallimentare. L’amministrazione, al contrario, ha agito correttamente nel valutare l’intervento come un unico abuso edilizio organico, sanzionabile secondo le disposizioni previste per le trasformazioni non autorizzate.



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Autore: Andrea Dicanto

Autore Andrea Dicanto
Appassionato Progettista esperto nel settore dell'Edilizia, delle Costruzioni e dell'Arredamento. Fin da giovane ho sempre studiato ed analizzato problematiche che vanno dalle questioni statiche di edifici e costruzioni fino al miglior modo di progettare ed arredare gli spazi interni, strizzando l'occhio alle nuove tecnologie soprattutto in ambito sismico.

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