Nel panorama del contenzioso edilizio italiano, le sentenze che riguardano abusi in aree soggette a vincoli ambientali e paesaggistici hanno spesso un peso che va oltre il singolo caso. Una recente decisione del Consiglio di Stato ha riaffermato un principio chiave: anche difformità apparentemente minime rispetto ai titoli edilizi possono comportare la demolizione obbligatoria se l’intervento sorge in zone vincolate.

Una posizione di rigore, giustificata dalla necessità di tutelare l’integrità del territorio e la vivibilità dei luoghi, che tuttavia si confronta oggi con una normativa in cambiamento, come dimostra il recente “Decreto Salva Casa“.

Ma cosa succede quando un manufatto già autorizzato viene realizzato con misure leggermente diverse da quelle approvate? E se quel manufatto incide sulla qualità della vita dei vicini?

È possibile intervenire anche se non si è formalmente parte del procedimento? E infine: il nuovo decreto cambierà davvero le regole del gioco?

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Il caso: piccole difformità, grande impatto

Tutto parte da un’ordinanza comunale di rimessa in pristino, emessa dopo un sopralluogo tecnico che aveva rilevato alcune discrepanze tra il progetto approvato e le opere realizzate. In particolare, si trattava dell’ampliamento di una superficie asfaltata soprastante una fila di box auto: un incremento di poco più di un metro in lunghezza e una leggera variazione in larghezza rispetto alle misure assentite.

A ciò si aggiungevano difformità di tipo estetico (come la mancata posa di pietrame a vista su alcuni muri di contenimento) e l’utilizzo del manufatto anche come deposito, oltre che come parcheggio.

Apparentemente si trattava di variazioni di poco conto. Tuttavia, l’opera era situata in un’area vincolata paesaggisticamente e soggetta a piano urbanistico comunale di riqualificazione. E non era un’area qualsiasi: la piattaforma asfaltata si trovava a ridosso dell’abitazione confinante, a tal punto da arrivare quasi all’altezza delle finestre del piano terra.

Un elemento, questo, che aveva portato i vicini a segnalare l’abuso edilizio e a chiedere l’intervento del Comune, motivando la propria preoccupazione per la perdita di valore e vivibilità del loro immobile.

Dopo la morte del denunciante originario, sono state le sue figlie a portare avanti la battaglia legale, opponendosi al tentativo di annullare l’ordinanza di demolizione. La questione non si è limitata alla sola legittimità delle opere, ma ha toccato anche il diritto dei confinanti a essere parte attiva nel processo amministrativo.

Questo ha reso il caso emblematico: non solo per la delicatezza dei vincoli edilizi, ma anche per il nodo, giuridico e pratico, della legittimazione ad agire in simili circostanze.

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Il TAR: abuso sì, ma l’ordinanza è carente

Nel 2021, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria aveva riconosciuto l’esistenza di un abuso edilizio, ma aveva deciso di accogliere parzialmente il ricorso presentato dai proprietari dell’opera. Secondo i giudici di primo grado, l’ordinanza comunale soffriva di alcune criticità formali e sostanziali.

La principale riguardava l’individuazione del corretto riferimento normativo: a fronte di difformità ritenute di scarsa entità, il TAR riteneva che non si sarebbe dovuto applicare l’art. 31 del Testo Unico Edilizia (interventi totalmente difformi o in assenza di permesso), bensì l’art. 34, che disciplina le parziali difformità.

In secondo luogo, il TAR aveva criticato l’ordinanza per la mancanza di chiarezza riguardo alle opere da demolire. Secondo i giudici, l’atto lasciava i destinatari nell’incertezza circa quali porzioni del manufatto dovessero essere rimosse e in che modo dovesse essere ripristinato lo stato dei luoghi. Inoltre, si metteva in dubbio l’esistenza di una modifica della destinazione d’uso, dal momento che l’area era già in precedenza adibita a parcheggio e autorimessa.

Queste valutazioni portarono a una decisione intermedia: l’abuso c’era, ma l’ordinanza andava riscritta meglio. Una conclusione che sembrava voler cercare un compromesso, ma che secondo i vicini, costituitisi in appello, rischiava di depotenziare l’efficacia delle sanzioni in un contesto urbanistico e ambientale altamente sensibile.

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La linea del Consiglio di Stato: in zona vincolata la demolizione è obbligatoria

In netto contrasto con la decisione del TAR, il Consiglio di Stato con la sentenza n. 2814/2025 ha accolto l’appello proposto dai confinanti, ribaltando la sentenza di primo grado e confermando la piena legittimità dell’ordinanza di demolizione. La motivazione è chiara: quando un’opera edilizia è realizzata in area sottoposta a vincolo paesaggistico o ambientale, anche una difformità minima rispetto al titolo abilitativo è da considerarsi, per legge, una “variazione essenziale”.

Ciò comporta l’applicazione delle sanzioni previste per le opere totalmente abusive, ossia la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi.

Il Consiglio ha evidenziato che, fino alla modifica introdotta dal decreto “Salva Casa” nel 2024, l’art. 32 del Testo Unico Edilizia equiparava automaticamente qualsiasi intervento non conforme in zona vincolata a una violazione grave, da trattare come difformità totale. Nessuna discrezionalità, nessun margine di tolleranza: la presenza del vincolo impone il massimo rigore.

Non solo: i giudici hanno ritenuto infondata anche la critica relativa all’indeterminatezza dell’ordinanza, affermando che le difformità da eliminare erano puntualmente descritte nel verbale tecnico di sopralluogo, richiamato nell’atto comunale.

Infine, viene ribadito un principio di fondo: la tutela del territorio vincolato ha carattere prioritario e non ammette eccezioni, nemmeno quando le modifiche sembrano trascurabili sulla carta ma hanno effetti concreti sulla vivibilità dell’ambiente circostante.

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Il diritto dei confinanti: non serve essere “controinteressati” per agire

Uno degli aspetti più interessanti della sentenza riguarda la posizione dei vicini che si erano opposti al ricorso avverso l’ordinanza comunale. Il punto era delicato: non erano stati formalmente citati nel giudizio come “controinteressati”, ovvero come soggetti direttamente toccati dal provvedimento impugnato, ma si erano costituiti in giudizio come eredi del denunciante originario.

Il Consiglio di Stato ha colto l’occasione per fare chiarezza: non serve essere indicati nell’atto amministrativo per avere titolo a intervenire, purché si dimostri un concreto interesse, come nel caso in cui l’abuso incida negativamente sulla proprietà confinante. I giudici hanno ritenuto sufficiente che le appellanti vivessero nell’abitazione adiacente all’area oggetto dell’intervento e che tale intervento avesse causato un pregiudizio evidente in termini di vivibilità, decoro e valore immobiliare.

In altre parole, è legittimo agire per difendere i propri diritti anche quando non si è formalmente parte del provvedimento impugnato, purché vi sia un collegamento concreto tra l’opera contestata e il danno subito. Un chiarimento che rafforza la possibilità, per i cittadini, di opporsi attivamente agli abusi edilizi che impattano sulla qualità della vita e sull’ambiente in cui vivono.

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Il Decreto Salva Casa cambia le regole, ma non per il passato

Una delle parti più significative della sentenza è il confronto tra la normativa vigente all’epoca dei fatti e quella introdotta nel 2024 dal decreto-legge n. 69/2024, convertito nella legge n. 105/2024, noto come Decreto Salva Casa. Prima di questa riforma, il comma 3 dell’art. 32 del Testo Unico Edilizia (d.P.R. 380/2001) prevedeva che qualsiasi intervento eseguito in difformità, anche parziale, su immobili o aree vincolate, fosse equiparato a una variazione essenziale.

Questo automatismo rendeva obbligatoria la demolizione, senza possibilità di ricorrere a sanzioni alternative.

Il Decreto Salva Casa ha eliminato questa automatica equiparazione, rendendo possibile, in alcuni casi, una valutazione più flessibile e proporzionata dell’intervento edilizio. Tuttavia, il Consiglio di Stato ha chiarito che la nuova disciplina non può essere applicata retroattivamente: per gli abusi commessi e sanzionati prima della sua entrata in vigore, vale la legge del tempo in cui l’ordinanza è stata emessa.

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Questo significa che, nel caso in esame, l’opera abusiva – seppur solo in parte difforme – doveva comunque essere trattata come una variazione essenziale e quindi demolita. La scelta del legislatore del 2024 rappresenta dunque una discontinuità normativa importante, che però non scalfisce la validità delle sanzioni già adottate secondo la vecchia disciplina.