Il condono edilizio richiede il rispetto rigoroso dei termini di ultimazione delle opere; le leggi successive non sono retroattive e il silenzio-assenso non può sanare abusi privi dei requisiti.

Il condono edilizio è spesso visto come una soluzione definitiva per regolarizzare vecchi abusi, soprattutto quando le domande restano aperte per molti anni. Tuttavia, una recente sentenza del TAR n° 22917, dimostra come la sanatoria non sia affatto automatica e come il rispetto dei requisiti di legge resti centrale, anche a distanza di decenni.
Il caso riguarda una domanda di condono presentata ai sensi della legge n. 47 del 1985, respinta dal Comune perché l’edificio, alla data limite prevista, non risultava ancora completato nelle sue parti essenziali. I proprietari hanno contestato il diniego, sostenendo che le opere fossero state ultimate successivamente e che potessero rientrare nelle maglie del secondo condono o, in alternativa, beneficiare del silenzio-assenso.
Ma cosa significa, in concreto, che un edificio non è “ultimato”? Perché il secondo condono non può intervenire su una domanda più vecchia? E quando il silenzio dell’amministrazione non produce alcun effetto?
Sommario
Il caso sottoposto all’esame del TAR Lazio riguarda una domanda di condono edilizio presentata ai sensi della legge n. 47 del 1985, relativa a un immobile realizzato in assenza di titolo abilitativo. L’amministrazione comunale ha rigettato l’istanza ritenendo che, alla data del 1° ottobre 1983, termine ultimo fissato dal primo condono, l’edificio non potesse considerarsi ultimato. In particolare, dall’istruttoria è emerso che, pur essendo presente la copertura, mancavano le tamponature esterne, elemento essenziale per la definizione dei volumi edilizi.
La documentazione fotografica e tecnica acquisita agli atti ha confermato che la costruzione si trovava in uno stato ancora incompleto, tale da non consentire l’individuazione certa della sagoma e della consistenza dell’immobile.
Un aspetto decisivo, valorizzato anche dal Tribunale, è che gli interventi di completamento – comprese le tamponature, gli intonaci e le opere interne – risultavano eseguiti solo diversi anni dopo, in epoca successiva al termine previsto dalla legge. La stessa parte richiedente, nel corso del procedimento, aveva fatto riferimento a lavori realizzati negli anni Novanta, circostanza che ha ulteriormente rafforzato la tesi dell’amministrazione.
In questo contesto, il diniego del condono non è stato considerato frutto di un automatismo o di una valutazione sommaria, ma il risultato di un’istruttoria coerente con la normativa vigente e con i criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia di sanatoria edilizia.
Leggi anche: Tettoia abusiva in area vincolata? No al condono, il Salva Casa non basta
Advertisement - PubblicitàUno dei nodi centrali affrontati dal TAR Lazio riguarda il tentativo, piuttosto frequente nella pratica, di far rientrare una vecchia domanda di condono nell’ambito applicativo di una normativa successiva, più favorevole sotto il profilo temporale. Nel caso esaminato, i ricorrenti hanno sostenuto che, anche se l’opera non era ultimata entro il termine previsto dal primo condono, essa sarebbe comunque divenuta sanabile grazie al secondo condono edilizio, che consentiva il completamento degli abusi entro una data successiva.
Il Tribunale ha però respinto questa impostazione, ribadendo un principio chiaro: ogni domanda di condono deve essere valutata esclusivamente in base alla legge in forza della quale è stata presentata.
Secondo i giudici, la normativa sul condono edilizio ha carattere straordinario ed eccezionale e non ammette interpretazioni estensive o applicazioni analogiche. La legge successiva non ha alcun effetto retroattivo e non prevede meccanismi automatici di “trasmigrazione” delle domande già presentate. Di conseguenza, un’istanza presentata ai sensi della legge del 1985 resta ancorata ai requisiti temporali e sostanziali di quella disciplina, senza possibilità di beneficiare delle soglie più ampie introdotte in un secondo momento.
In mancanza di una specifica richiesta di riesame nei termini previsti dalla legge successiva, la pretesa di applicare retroattivamente il secondo condono è stata ritenuta giuridicamente infondata.
Leggi anche: Casa con abusi edilizi? ecco quando Condono edilizio e Salva Casa non si possono applicare
Advertisement - PubblicitàUno degli aspetti più rilevanti della sentenza riguarda il concetto di ultimazione dell’opera, spesso sottovalutato o frainteso dai proprietari. Il TAR Lazio ha richiamato il principio, ormai consolidato, secondo cui per le nuove costruzioni un edificio può dirsi ultimato solo quando risulta completato almeno al rustico, cioè quando sono state realizzate la struttura portante, la copertura e le tamponature esterne.
Non è sufficiente, quindi, che l’immobile presenti un tetto o una sagoma parziale: senza le chiusure perimetrali non è possibile individuare con certezza i volumi e la consistenza edilizia, elementi imprescindibili ai fini della sanatoria.
La giurisprudenza distingue infatti tra completamento strutturale e completamento funzionale. Il primo riguarda le nuove costruzioni e richiede che l’edificio abbia assunto una forma stabile e riconoscibile sotto il profilo planivolumetrico. Il secondo, invece, opera per gli interventi su edifici già esistenti o per le opere interne, dove l’ultimazione coincide con la possibilità di utilizzo dell’immobile secondo la sua destinazione.
Nel caso esaminato, trattandosi di una nuova costruzione, il criterio rilevante era quello strutturale e l’assenza delle tamponature alla data limite ha impedito di considerare l’opera come ultimata nei termini di legge.
Leggi anche: Quando il vicino può accedere agli atti edilizi? il diritto di difendersi vince sulla riservatezza
Advertisement - PubblicitàUn ulteriore passaggio chiave della sentenza riguarda l’onere della prova in materia di condono edilizio. Il TAR Lazio ha ribadito che spetta esclusivamente al privato richiedente dimostrare, con elementi oggettivi e attendibili, la data di realizzazione e di ultimazione delle opere abusive. Questo principio discende dal fatto che solo il proprietario o l’avente titolo dispone normalmente della documentazione tecnica, fotografica o amministrativa idonea a provare lo stato dei luoghi in un determinato momento storico.
In assenza di tali riscontri, l’amministrazione non è tenuta a supplire alle carenze probatorie del richiedente.
Nel caso esaminato, i giudici hanno evidenziato come la documentazione prodotta non fosse sufficiente a dimostrare che le tamponature esterne fossero state realizzate entro il termine previsto dalla legge. Al contrario, alcuni atti tecnici e le stesse dichiarazioni rese nel procedimento lasciavano intendere che i lavori di completamento fossero avvenuti solo in un periodo successivo. Questa circostanza ha reso impossibile accogliere la domanda di sanatoria, confermando che, in mancanza di una prova chiara e puntuale, l’amministrazione ha il dovere, e non una semplice facoltà, di negare il condono richiesto.
Leggi anche: Abuso edilizio: il TAR chiarisce l’onere della prova nel condono
Advertisement - PubblicitàTra le censure sollevate vi era anche quella relativa alla presunta formazione del silenzio-assenso sull’istanza di condono, in ragione del lungo tempo trascorso senza una decisione espressa dell’amministrazione. Il TAR Lazio ha però chiarito che questo meccanismo non opera automaticamente in ogni procedimento e, soprattutto, non può sanare situazioni prive dei presupposti minimi previsti dalla legge.
Affinché il silenzio possa assumere valore di assenso, l’istanza deve essere quantomeno riconducibile al modello normativo delineato dal legislatore, ossia deve poggiare su un abuso astrattamente sanabile.
Approfondisci: Decenni di silenzio non salvano l’abuso edilizio: veranda e pergolato costano la demolizione
Nel caso esaminato, l’assenza dell’ultimazione dell’opera entro il termine previsto ha determinato una vera e propria inconfigurabilità giuridica della domanda. In altre parole, non essendo mai esistito, nei tempi richiesti, un abuso condonabile, il procedimento non poteva condurre alla formazione di alcun titolo edilizio, nemmeno per effetto del decorso del tempo. Il Tribunale ha così escluso che il silenzio dell’amministrazione potesse trasformarsi in un’assenso tacito, ribadendo che il silenzio-assenso non può essere utilizzato per aggirare requisiti sostanziali imposti dalla legge.
Compila il form sottostante: la tua richiesta verrà moderata e successivamente inoltrata alle migliori Aziende del settore, GRATUITAMENTE!




