Possono coesistere nella stessa persona le attività di agente immobiliare e di amministratore di condominio? È questa la domanda al centro di una recente e significativa sentenza del Consiglio di Stato, che ha posto fine a una lunga controversia amministrativa culminata con un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

La questione, in apparenza tecnica, tocca un punto nevralgico del diritto professionale: fino a che punto lo Stato può impedire lo svolgimento congiunto di due attività se non è in grado di dimostrare, caso per caso, un reale conflitto di interessi?

La decisione della giustizia amministrativa ha avuto l’effetto di annullare i provvedimenti che vietavano in via generale l’esercizio congiunto di queste due professioni, ritenendoli contrari al principio europeo di proporzionalità.

Ma cosa cambia davvero per i professionisti del settore? E quanti altri casi potrebbero essere coinvolti da questa svolta giurisprudenziale?

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La vicenda giudiziaria: una lunga battaglia tra interpretazioni

La controversia ha preso avvio quando la Camera di Commercio, recependo l’interpretazione fornita dal Ministero dello Sviluppo Economico, ha stabilito che l’esercizio congiunto dell’attività di amministratore di condominio e di agente immobiliare fosse, in determinati casi, automaticamente incompatibile. Nello specifico, l’incompatibilità è stata ravvisata nel fatto che l’attività di amministrazione venisse svolta in forma imprenditoriale, con un numero elevato di condomini gestiti e un volume economico superiore a quello della mediazione.

Questo, secondo l’ente, faceva emergere un potenziale conflitto d’interessi sistemico, sufficiente a giustificare l’inibizione dell’attività di intermediazione.

La misura adottata si è concretizzata in una doppia azione: da un lato, l’iscrizione forzata nel Repertorio Economico Amministrativo (REA) della sola attività di amministrazione; dall’altro, il blocco della mediazione immobiliare. L’impresa colpita da tale decisione ha presentato ricorso al TAR, che però ha confermato la validità del provvedimento, ritenendo corretto e proporzionato il ragionamento dell’amministrazione.

Secondo il giudice di primo grado, era giustificato presumere che un professionista che gestisce numerosi immobili potesse essere tentato di promuovere in via preferenziale quelli già sotto la propria amministrazione, compromettendo così la terzietà imposta dall’art. 1754 del Codice Civile.

Articolo n° 1754
Mediatore
“E’ mediatore colui che mette in relazione due o piu’ parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza.”

Una visione fondata su un’interpretazione precauzionale dell’art. 5, comma 3, della Legge 39/1989, come riformulato dalla Legge 37/2019, la quale vieta l’attività di mediazione in presenza di rapporti diretti o interessi con l’oggetto dell’intermediazione.

L’impresa, tuttavia, ha deciso di impugnare la sentenza in appello, contestando la generalizzazione del divieto, la mancanza di una verifica concreta sul singolo caso e l’incompatibilità di questa impostazione con i principi europei, in particolare quelli sanciti dalle direttive sui servizi e sulle qualifiche professionali.

Il Consiglio di Stato, rilevando l’esistenza di una questione interpretativa non banale e potenzialmente in contrasto con il diritto dell’Unione, ha sospeso il giudizio e rimesso la questione alla Corte di Giustizia dell’UE, aprendo così la strada a un confronto tra diritto interno e principi comunitari.

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Cosa ha detto la corte di giustizia dell’unione europea

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, investita della questione pregiudiziale, ha offerto una risposta chiara e destinata ad avere conseguenze profonde sull’ordinamento interno. Con la sentenza del 4 ottobre 2024, i giudici europei hanno affermato che una normativa nazionale che prevede in via preventiva e generalizzata l’incompatibilità tra l’attività di agente immobiliare e quella di amministratore di condominio viola il diritto europeo.

In particolare, il divieto previsto dall’art. 5, comma 3, della Legge 39/1989 – quando applicato in modo automatico e indipendentemente da verifiche concrete – è stato ritenuto contrario ai principi di proporzionalità, non discriminazione e libertà di prestazione dei servizi sanciti dalle direttive 2006/123/CE e 2005/36/CE, oltre che dall’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

La Corte ha chiarito che l’archiviazione di una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea non equivale, di per sé, a una validazione della normativa contestata. Pertanto, l’Italia non poteva ritenere “sanata” la propria disciplina solo in virtù della cessazione del procedimento europeo aperto nel 2018. Ma soprattutto, ha sottolineato che non si può vietare a priori l’esercizio congiunto di due professioni, se non è dimostrato in modo puntuale e motivato che tale divieto risponde a un effettivo “motivo imperativo di interesse generale” e che la misura è necessaria e proporzionata a tutelare tale interesse.

In sostanza, la Corte ha stabilito un principio fondamentale: l’incompatibilità non può essere presunta, ma deve essere dimostrata. È solo quando l’agente immobiliare cerca di intermediare un immobile che egli stesso amministra che si può configurare un conflitto d’interessi tale da giustificare un limite normativo.

In tutti gli altri casi, le attività possono coesistere senza violare i diritti degli utenti né l’equilibrio del mercato.

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Le conseguenze della sentenza del consiglio di stato

Dopo la pronuncia della Corte di Giustizia, il Consiglio di Stato con la sentenza n° 1925/2025 ha accolto integralmente l’appello dell’impresa ricorrente, annullando tutti i provvedimenti adottati dalla Camera di Commercio e dal Ministero. La motivazione è netta: la normativa italiana, così come applicata, ha introdotto un divieto troppo ampio e rigido, non sostenuto da una verifica effettiva sul rischio di conflitto di interessi nel caso specifico.

Il Consiglio di Stato ha ribadito che la riformulazione dell’art. 5, comma 3, della Legge 39/1989 – modificata nel 2019 proprio per allinearsi al diritto europeo – richiede un’interpretazione caso per caso. In altri termini, non è sufficiente che un soggetto svolga entrambe le attività per configurare un’incompatibilità: è necessario dimostrare che esiste un effettivo rischio che il mediatore operi in modo non imparziale su un immobile che amministra direttamente.

Solo in presenza di tale circostanza concreta, documentata e motivata, l’interdizione dell’attività di mediazione può considerarsi legittima.

Con questa sentenza, quindi, si stabilisce un principio di portata generale: le norme che limitano l’accesso o l’esercizio di una professione devono rispettare il principio di proporzionalità e non possono basarsi su mere presunzioni. Non solo: l’interpretazione data dal Consiglio di Stato rafforza anche l’autonomia dei professionisti, tutelando le forme di esercizio multidisciplinare che sono ormai comuni nel mercato moderno. È un messaggio forte agli enti regolatori: i controlli devono essere fondati su evidenze specifiche, non su automatismi burocratici.