Il TAR Lazio conferma che per cambiare destinazione d’uso da magazzino a sala registrazione serve il permesso di costruire, anche per enti culturali e associazioni del terzo settore.
Nel mondo dell’edilizia, uno dei temi più discussi è il cambio di destinazione d’uso: quando un immobile passa da una funzione all’altra — ad esempio, da magazzino a ufficio, o da deposito a sala prove musicale — si attivano regole ben precise, spesso sottovalutate. In molti casi si crede che basti una semplice CILA (Comunicazione Inizio Lavori Asseverata) per eseguire questi cambiamenti, magari perché non vengono effettuate modifiche strutturali o perché l’attività è senza fini di lucro, come nel caso di una associazione culturale.
Ma davvero è sufficiente una CILA per cambiare la natura d’uso di un locale? Oppure è necessario un permesso di costruire anche se l’immobile resta fisicamente lo stesso?
Una recente sentenza del TAR del Lazio fa chiarezza su questo punto e pone un importante precedente per professionisti, tecnici, associazioni e cittadini. Scopriamo insieme cosa è stato deciso e quali sono le implicazioni concrete di questo pronunciamento.
Sommario
Tutto ha avuto inizio quando, in un quartiere della Capitale, all’interno di un locale seminterrato originariamente classificato come magazzino, sono stati eseguiti lavori che ne hanno radicalmente trasformato l’uso. Il locale, ampio circa 400 mq, era privo di superficie utile lorda (SUL) e non comportava alcun carico urbanistico. Tuttavia, nel tempo è stato allestito come una sala di registrazione musicale, completa di cabina strumentale, insonorizzazione, pavimentazione in parquet, un bagno accessoriato e una diversa distribuzione degli spazi interni. È stato perfino installato un bancone bar all’interno della sala comune.
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Inizialmente, è stata presentata una CILA per lavori di manutenzione straordinaria, dichiarando interventi come l’installazione di tramezzi e l’adeguamento impiantistico. A distanza di qualche anno, il locale è stato concesso in comodato a un’associazione culturale senza scopo di lucro, che lo ha utilizzato regolarmente come sede e spazio per attività artistiche.
Il Comune, però, dopo vari sopralluoghi, ha accertato il mutamento della destinazione d’uso del locale — da magazzino a sala prove con attività continuativa — senza il prescritto titolo abilitativo. Ne sono derivati due provvedimenti: un primo atto di accertamento dell’abuso edilizio, e poi una vera e propria ingiunzione alla demolizione delle opere e al ripristino dello stato originario.
I soggetti coinvolti hanno impugnato entrambi gli atti dinanzi al TAR, sostenendo la legittimità dell’intervento tramite CILA, la natura temporanea dell’uso e il ruolo sociale dell’associazione. Ma i giudici non hanno condiviso questa visione.
Advertisement - PubblicitàAl centro del contenzioso si trova un nodo giuridico molto delicato e, purtroppo, spesso frainteso: quale titolo abilitativo è necessario per un cambio di destinazione d’uso? I ricorrenti hanno sostenuto che, non essendo stati eseguiti lavori strutturali e considerando il carattere non profit dell’attività svolta, la semplice CILA fosse sufficiente.
Ma per il TAR la risposta è chiara: no, non basta.
Secondo la giurisprudenza consolidata e l’interpretazione degli articoli 23-ter e 9-bis del DPR 380/2001, il cambio di destinazione d’uso è urbanisticamente rilevante ogniqualvolta comporta il passaggio a una categoria funzionale diversa (ad esempio, da deposito a direzionale, commerciale o residenziale), anche senza esecuzione di opere edilizie. In questi casi, non solo serve un’autorizzazione, ma è necessario almeno un permesso di costruire o una SCIA alternativa, a seconda dei casi.
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Nel caso esaminato, la trasformazione da locale accessorio a sala utilizzata quotidianamente da persone per attività artistiche ha comportato un aumento del carico urbanistico, la creazione di superficie utile lorda e la modifica funzionale e permanente dell’immobile. Elementi che, tutti insieme, configurano un intervento di ristrutturazione edilizia e non semplicemente di manutenzione.
Anche l’argomentazione secondo cui l’attività culturale sarebbe compatibile con qualunque destinazione d’uso è stata respinta: il Tribunale ha infatti sottolineato che la qualità di ente del terzo settore non esonera dal rispetto delle norme urbanistiche ed edilizie.
Advertisement - PubblicitàIl TAR Lazio ha motivato il rigetto del ricorso in modo ampio e approfondito, basandosi su elementi sia normativi che giurisprudenziali. Innanzitutto, ha chiarito che non vi è alcun dubbio sulla natura del cambio di destinazione d’uso avvenuto, né sul fatto che esso fosse stato realizzato senza titolo abilitativo.
Il locale, originariamente classificato come magazzino (categoria C2), è stato trasformato in un ambiente destinato a ospitare attività artistiche, culturali e sociali con presenza costante di persone, dotato di servizi igienici, impianti e allestimenti permanenti. Questo, secondo il giudice, non può essere considerato un uso accessorio o temporaneo, ma un vero e proprio uso produttivo/direzionale.
Il cambio funzionale ha comportato la creazione di volumetria utile e superficie calpestabile, con un impatto urbanistico significativo: più presenza umana, più servizi richiesti, più carico urbanistico. Tutto ciò richiede, per legge, un permesso di costruire, non una semplice comunicazione come la CILA.
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Inoltre, il TAR ha ritenuto irrilevante la natura non lucrativa dell’attività e l’appartenenza dell’associazione al terzo settore: questi elementi non eliminano l’obbligo di rispettare le norme edilizie, né tantomeno consentono deroghe automatiche alla pianificazione urbanistica. La legge consente agli enti sociali di insediarsi in tutte le zone omogenee (A, B, C, ecc.), ma solo se le sedi sono conformi ai requisiti edilizi e igienico-sanitari previsti.
Il Tribunale ha quindi ribadito un principio fondamentale: l’interesse sociale non giustifica l’abusivismo edilizio.
Advertisement - PubblicitàLa sentenza n. 15623/2025 del TAR Lazio rappresenta un chiarissimo monito per tecnici, associazioni e proprietari immobiliari: non è sufficiente appellarsi alla buona fede, all’assenza di lucro o al valore sociale di un’attività per eludere le regole dell’urbanistica.
Chi si occupa di edilizia — architetti, ingegneri, geometri e legali — dovrà prestare massima attenzione in fase di progettazione e consulenza, specialmente quando si propone un cambio di destinazione d’uso. In casi come quello trattato, in cui un locale accessorio (magazzino) viene trasformato in uno spazio utilizzato regolarmente da persone, non ci si può limitare a una CILA. Serve un titolo abilitativo adeguato, nella forma di permesso di costruire o, nei casi previsti, SCIA alternativa.
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Anche le associazioni del terzo settore, pur animate da finalità sociali, culturali o artistiche, devono essere consapevoli che l’utilizzo stabile di un immobile comporta obblighi edilizi precisi, legati alla sicurezza, all’agibilità e all’impatto urbanistico. In nessun caso la normativa consente una “sanatoria automatica” sulla base della qualifica giuridica dell’ente o del tipo di attività svolta.
Infine, la pronuncia ribadisce un concetto già espresso da più tribunali amministrativi e dal Consiglio di Stato: il cambio di destinazione d’uso tra categorie funzionalmente autonome è sempre urbanisticamente rilevante, anche se non accompagnato da opere. Questo comporta l’obbligo di seguire l’iter autorizzativo corretto, pena l’applicazione di sanzioni e l’ordine di demolizione.
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