Il TAR conferma la legittimità della demolizione di un edificio costruito con distanze irregolari, nonostante i decenni trascorsi e il legittimo affidamento. Nessuna sanatoria implicita o prevalenza dell’abitabilità.

Un’abitazione costruita più di quarant’anni fa, con regolare concessione edilizia, viene oggi dichiarata non conforme alle norme sulle distanze minime tra edifici. Il Comune ordina la demolizione di parte dell’immobile, e i proprietari — due famiglie che da anni vivono lì — fanno ricorso al TAR, convinti di avere pienamente rispettato le regole.
Al centro del caso ci sono le norme del D.M. 1444/1968 sulle distanze tra fabbricati, il valore dei titoli edilizi rilasciati nel tempo e il principio di affidamento del cittadino nei confronti dell’amministrazione pubblica.
Ma può davvero una distanza inferiore ai dieci metri tra edifici comportare l’obbligo di demolire? E cosa succede se l’abuso viene scoperto solo dopo decenni, su segnalazione di un privato cittadino?
Scopriamo cosa ha deciso il TAR Lombardia e quali sono le implicazioni concrete per chi ha costruito (o acquista) su aree PEEP.
Sommario
L’immobile al centro della vicenda si trova a Buscate, in provincia di Milano, ed è stato costruito all’inizio degli anni ’80 nell’ambito di un Piano di Edilizia Economica e Popolare (PEEP) approvato dal Comune nel 1977. I proprietari attuali hanno ereditato o acquistato l’abitazione nel tempo, ma l’edificio è sempre stato utilizzato come residenza per due nuclei familiari.
Il terreno su cui sorge la casa non è di proprietà privata piena: i ricorrenti infatti sono titolari di un diritto di superficie concesso dal Comune, che mantiene la proprietà del suolo. Questo è un aspetto fondamentale per comprendere il quadro giuridico.
La prima concessione edilizia, rilasciata nel 1981, autorizzava la costruzione dell’immobile. Una seconda concessione, del 1983, permetteva invece la realizzazione della recinzione. Da allora, il fabbricato è rimasto sostanzialmente invariato, ed è stato oggetto nel tempo di interventi di manutenzione ordinaria sempre comunicati al Comune.
Tutto sembrava in regola fino al 2023, quando, a seguito di una segnalazione da parte di un vicino, il Comune ha effettuato un sopralluogo e ha riscontrato una presunta difformità edilizia.
Advertisement - PubblicitàTutto è cominciato con una segnalazione presentata da un privato cittadino, che ha portato il Comune di Buscate a eseguire un sopralluogo sull’immobile nell’ottobre del 2023. In quell’occasione, i tecnici comunali hanno rilevato che la distanza tra l’edificio oggetto di verifica e quello vicino sul lato sud non rispettava i 10 metri imposti dalla normativa nazionale in materia edilizia, in particolare dall’art. 9 del D.M. 1444/1968, una norma considerata di rango inderogabile.
Dai rilievi è emerso che la distanza effettiva tra le pareti finestrate dei due fabbricati sarebbe di circa 8,95 metri, dunque inferiore al minimo richiesto per garantire condizioni adeguate di salubrità, igiene e illuminazione tra edifici residenziali.
Sulla base di questa violazione, il Comune ha ordinando ai proprietari la demolizione della parte dell’edificio costruita in difformità e il ripristino dello stato legittimo dei luoghi.
Una misura pesante, soprattutto considerando che l’edificio esiste da oltre quarant’anni, è abitato da due famiglie e finora non era mai stato oggetto di contestazioni. I ricorrenti hanno quindi deciso di impugnare l’ordinanza davanti al TAR Lombardia, ritenendo che l’abitazione fosse conforme alle autorizzazioni edilizie rilasciate nel tempo, o comunque meritevole di tutela per via dell’affidamento generato dagli atti della stessa amministrazione.
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Advertisement - PubblicitàSecondo i ricorrenti, l’immobile non sarebbe affatto abusivo. Al contrario, sarebbe stato costruito regolarmente con la concessione edilizia rilasciata nel 1981, cui sarebbe poi seguita una seconda autorizzazione nel 1983 per la realizzazione della recinzione.
È proprio quest’ultima concessione che, secondo la loro tesi, modificherebbe implicitamente le distanze dal confine del lotto, poiché indicherebbe una lunghezza del terreno inferiore rispetto a quella prevista nel primo progetto, di fatto autorizzando la posizione attuale del fabbricato. Da qui, la convinzione che non vi sia alcuna difformità edilizia.
Inoltre, nel 1983 il Comune ha rilasciato il certificato di abitabilità, e negli anni successivi ha accolto senza obiezioni diverse comunicazioni di inizio lavori per opere di manutenzione ordinaria. Questi elementi, per i ricorrenti, avrebbero rafforzato il legittimo affidamento sulla conformità dell’edificio: un principio riconosciuto anche dalla giurisprudenza, che impone alla pubblica amministrazione di agire con coerenza e trasparenza nei confronti del cittadino.
Infine, i proprietari hanno sottolineato che nessuno degli atti rilasciati negli anni è mai stato annullato, e che l’edificio è da sempre destinato a uso abitativo stabile. Per questo motivo, ritengono sproporzionata la misura della demolizione e auspicano, quantomeno, una soluzione alternativa come la fiscalizzazione dell’abuso.
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Advertisement - PubblicitàIl TAR per la Lombardia, con la sentenza n° 2296/2025, ha rigettato il ricorso, ritenendo fondate le ragioni del Comune. Secondo il TAR, la distanza minima di 10 metri tra edifici con pareti finestrate, prevista dall’art. 9 del D.M. 1444/1968, è una norma inderogabile, salvo casi specifici (come piani particolareggiati con previsioni planivolumetriche), che nel caso di Buscate non sussistevano.
La concessione edilizia del 1983, ha spiegato il giudice, non poteva modificare retroattivamente le distanze previste nel titolo del 1981, né si può ritenere che il Comune, approvando la recinzione o rilasciando l’abitabilità, abbia implicitamente autorizzato la costruzione in una posizione difforme.
Inoltre, il TAR ha chiarito che l’obbligo di demolizione può essere imposto anche agli attuali proprietari, anche se non sono responsabili materiali dell’abuso, in quanto si tratta di una sanzione reale che riguarda l’immobile, non la persona.
Quanto al principio di affidamento, pur riconoscendone la rilevanza in astratto, il giudice ha stabilito che non può prevalere su una violazione urbanistica oggettiva e su una norma che tutela interessi generali come la salubrità e l’ordinato sviluppo del territorio. La mera tolleranza o mancata vigilanza da parte del Comune non basta a sanare l’abuso.
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Advertisement - PubblicitàUno degli argomenti più forti sostenuti dai ricorrenti riguardava la sproporzione della sanzione: demolire parte (o tutta) una casa abitata da due famiglie da oltre 40 anni, solo per una distanza ridotta di poco più di un metro, sarebbe — secondo loro — una misura eccessiva e ingiusta.
Per rafforzare questa tesi, i ricorrenti hanno richiamato anche la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), secondo cui la demolizione di un’abitazione può rappresentare una grave ingerenza nella vita privata e familiare. La Corte ha affermato che, in questi casi, il cittadino deve poter far valere la sproporzione della misura in rapporto alle sue condizioni personali e familiari.
Il TAR però ha fatto una distinzione importante: il principio di proporzionalità, anche secondo la giurisprudenza nazionale e comunitaria, non si applica nella fase in cui viene deciso l’abbattimento, ma può essere valutato solo nella fase esecutiva del provvedimento. In altre parole, l’ordinanza di demolizione resta legittima, ma l’amministrazione dovrà eventualmente tenere conto delle condizioni dei proprietari (come la presenza di minori o persone anziane) al momento di eseguire materialmente l’intervento.
Infine, una relazione tecnica allegata dai ricorrenti aveva evidenziato che una demolizione parziale potrebbe compromettere la stabilità dell’intero edificio, rendendo necessario abbatterlo per intero. Tuttavia, secondo il giudice, anche questa considerazione non incide sulla legittimità del provvedimento, ma può solo suggerire una maggiore cautela da parte dell’amministrazione in sede esecutiva.
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