Il TAR Lombardia ha annullato un diniego di sanatoria edilizia, riconoscendo la legittimità implicita di una variante realizzata negli anni Sessanta e mai formalmente contestata dal Comune.

In ambito edilizio, la richiesta di una sanatoria rappresenta spesso l’ultima spiaggia per chi ha realizzato un’opera in difformità rispetto al titolo originario. Si tratta di una procedura delicata, soggetta a valutazioni tecnico-giuridiche complesse, dove anche dettagli apparentemente marginali — come un disegno depositato o un sopralluogo di oltre cinquant’anni prima — possono rivelarsi decisivi.
Un recente caso deciso dal TAR Lombardia ha ribaltato il rifiuto opposto da un Comune alla richiesta di sanatoria per un immobile costruito in maniera diversa rispetto a quanto previsto da un nulla osta del 1966. Secondo il Tribunale, la sanatoria non era affatto necessaria, perché le modifiche erano già state tacitamente autorizzate attraverso documenti e comportamenti dell’amministrazione risalenti agli anni Sessanta.
Ma è davvero possibile che un Comune approvi un’opera edilizia senza un provvedimento formale? E in quali casi si può parlare di variante “legittima” anche senza seguire l’iter previsto dalla normativa?
La sentenza in questione offre uno spunto prezioso per chiarire questi aspetti e riflettere su come il passato amministrativo possa influenzare il presente edilizio.
Sommario
La vicenda ruota attorno a un edificio residenziale costruito negli anni ’60 in un Comune lombardo. I proprietari, ciascuno titolare di una porzione dell’immobile, si sono rivolti all’amministrazione comunale nel giugno 2021 per chiedere un permesso di costruire in sanatoria. L’obiettivo era quello di regolarizzare alcune difformità rispetto al progetto originariamente approvato con nulla osta n. 33 del 1966.
Le difformità erano tutt’altro che marginali: l’edificio era stato costruito con due piani fuori terra e un sottotetto, anziché i tre piani previsti; il piano terra, destinato in origine a autorimesse e locali di servizio, era stato trasformato in un appartamento con un ampio locale ripostiglio; il primo piano ospitava due unità abitative autonome; mancava il locale interrato previsto dal progetto iniziale e i prospetti dell’edificio erano stati modificati; infine, la distanza dai confini risultava inferiore rispetto a quanto autorizzato (3 metri invece di 3,60).
Il Comune, con provvedimento del 27 ottobre 2021, ha respinto la richiesta, ritenendo le opere non sanabili. Da qui è nato un contenzioso: i proprietari hanno dapprima presentato ricorso straordinario al Capo dello Stato, poi — su opposizione del Comune — hanno trasposto il procedimento davanti al TAR Lombardia.
Al centro del giudizio, un nodo fondamentale: le opere erano davvero abusive, oppure già implicitamente autorizzate all’epoca della costruzione?
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Advertisement - PubblicitàNel corso del giudizio, i ricorrenti hanno sostenuto una tesi ben precisa: sebbene l’edificio sia stato realizzato in modo difforme dal nulla osta del 1966, le modifiche costruttive sarebbero state effettivamente autorizzate, anche se in modo non formalmente espresso. A supporto di questa affermazione hanno prodotto una documentazione storica decisiva: una tavola progettuale depositata presso gli uffici comunali che riproduce fedelmente lo stato attuale dell’edificio.
Secondo i ricorrenti, quella tavola, contenuta nel medesimo fascicolo edilizio n. 33/66 del nulla osta originale, testimoniava una variante in corso d’opera.
Ma c’è di più. Tra il 1967 e il 1968, il Comune aveva rilasciato ben tre certificati di abitabilità per l’edificio, in seguito a specifici sopralluoghi tecnici. In particolare, nel certificato del 19 giugno 1968 si legge chiaramente che le opere sono state eseguite in conformità a un progetto di modifica, facendo così riferimento proprio a quella tavola “alternativa” presente agli atti.
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La difesa dei proprietari, quindi, si basa su una ricostruzione logica: se il Comune ha rilasciato i certificati di abitabilità dopo aver effettuato sopralluoghi in loco, senza rilevare alcuna irregolarità, e se esiste una tavola depositata che illustra le modifiche eseguite, allora è ragionevole concludere che l’amministrazione abbia implicitamente approvato la variante, anche in assenza di un provvedimento formale.
Dunque, secondo questa linea difensiva, non ci sarebbe mai stato bisogno di chiedere la sanatoria, perché l’edificio, nella sua attuale configurazione, era già stato “accettato” e legittimato dai comportamenti concludenti del Comune.
Advertisement - PubblicitàIl TAR Lombardia, con la sentenza n. 3696/2025, ha accolto integralmente la tesi dei ricorrenti, riconoscendo che le opere oggetto della richiesta di sanatoria non avrebbero mai dovuto essere considerate abusive. Il punto centrale della sentenza è che, anche in assenza di una formale autorizzazione, la condotta dell’amministrazione ha avuto valore autorizzativo implicito.
In particolare, il Tribunale ha dato rilievo a due elementi fondamentali:
Secondo il TAR, la mancata osservanza delle formalità previste dal regolamento edilizio dell’epoca (ad esempio, la mancanza di una firma o di un protocollo) non può prevalere sul fatto sostanziale che il Comune, ricevendo quella tavola e rilasciando abitabilità, ha di fatto accolto e autorizzato le modifiche. Il giudice ha osservato che non avrebbe avuto senso depositare una tavola con caratteristiche diverse dal progetto iniziale se non con l’intento di chiederne l’approvazione. Inoltre, è stato considerato altamente improbabile che i tecnici comunali, nel corso di sopralluoghi mirati, non si fossero accorti di difformità tanto evidenti, se queste fossero state effettivamente abusive.
La conseguenza logica è che l’edificio doveva ritenersi conforme, e che la richiesta di sanatoria era superflua. Pertanto, il provvedimento di diniego emesso dal Comune nel 2021 è stato annullato.
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