Un recente pronunciamento del Consiglio di Stato ha riacceso il dibattito su uno dei temi più delicati in materia edilizia: quando un intervento di recupero può essere considerato una ristrutturazione edilizia e non una nuova costruzione? La distinzione, apparentemente tecnica, ha conseguenze fondamentali per i cittadini, soprattutto in contesti vincolati o rurali.

Il caso riguarda un intervento edilizio negato da un Comune del Sud Italia, che considerava inammissibile il recupero di una masseria crollata perché il fabbricato era già parzialmente diruto prima del 2013. Secondo l’ente, ciò escludeva la possibilità di inquadrare l’opera come ristrutturazione edilizia. Ma il Consiglio di Stato ha ribaltato completamente questa lettura, chiarendo che anche edifici già demoliti o crollati prima del 2013 possono rientrare nella nozione di ristrutturazione, se ne sia accertabile la consistenza originaria.

Una decisione che può cambiare molto, soprattutto per chi è proprietario di ruderi o immobili collabenti in zone agricole, paesaggistiche o vincolate. Ma cosa significa davvero “preesistenza”? E quali margini lascia questa sentenza per il recupero di edifici abbandonati?

Cosa cambia per chi ha un rudere da recuperare? È sufficiente una vecchia planimetria per ricostruire? Vale ancora il vincolo della “continuità” tra demolizione e ricostruzione?

Continua a leggere per scoprire tutti i dettagli di una sentenza destinata a fare scuola.

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Quando il rudere diventa ostacolo alla ricostruzione

Tutto nasce dal rigetto, da parte di un Comune, della richiesta di permesso di costruire relativa a un intervento di risanamento conservativo e recupero funzionale di un’antica masseria. L’edificio, situato in un’area agricola vincolata, era in parte crollato o comunque in condizioni tali da non essere più utilizzabile. L’intervento progettato prevedeva il recupero della struttura, l’abbattimento delle barriere architettoniche e la realizzazione di spazi didattici e di piccola ristorazione legati all’attività agricola.

Il Comune, però, ha negato il titolo edilizio, ritenendo che l’intervento non potesse essere considerato “ristrutturazione”, ma fosse piuttosto una nuova costruzione. Alla base della decisione vi era l’interpretazione restrittiva dell’articolo 3 del DPR 380/2001, secondo cui — nella versione precedente alla modifica del 2013 — la ricostruzione doveva avvenire in stretta continuità temporale con la demolizione o il crollo. In pratica, se il fabbricato era già sparito o ridotto a rudere da tempo, non si poteva più parlare di ristrutturazione edilizia.

Questa impostazione è stata inizialmente confermata anche dal Tribunale Amministrativo Regionale (TAR), che ha respinto il ricorso della proprietaria. Ma il Consiglio di Stato ha successivamente ribaltato tutto, offrendo una lettura ben più ampia della norma e aprendo nuovi scenari per il recupero degli edifici rurali.

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La svolta giurisprudenziale: cos’è davvero la “ristrutturazione edilizia”?

Il Consiglio di Stato ha affrontato di petto la questione centrale: può un edificio crollato o demolito prima del 2013 essere ricostruito oggi come “ristrutturazione edilizia”? La risposta è sì, a patto che vi sia la possibilità di accertarne la preesistente consistenza.

Secondo i giudici, la modifica introdotta dall’art. 30 del D.L. 69/2013 ha ampliato la definizione di ristrutturazione, includendo anche il ripristino di edifici crollati o demoliti, senza imporre un vincolo temporale tra l’evento (crollo/demolizione) e la ricostruzione. L’avverbio “eventualmente”, contenuto nel testo normativo, è stato interpretato come indicativo della volontà del legislatore di non escludere interventi su immobili già scomparsi al momento dell’entrata in vigore della legge.

In altre parole, non è più necessario che la demolizione e la ricostruzione siano “contestuali” o ravvicinate nel tempo. L’importante è che l’intervento edilizio sia effettivamente volto a recuperare un manufatto preesistente, documentabile, e che la ricostruzione non si configuri come realizzazione di un edificio del tutto nuovo.

Leggi anche: Demolizione e ricostruzione: è sempre ristrutturazione? La sentenza fa chiarezza

Questa lettura supera un precedente orientamento più rigido, secondo cui la ricostruzione era possibile solo se l’immobile fosse crollato dopo il 2013. Una visione che, secondo il Consiglio di Stato, portava a situazioni irragionevoli e discriminatorie, trattando in modo diverso casi sostanzialmente identici solo per una questione di date.

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Ristrutturazione o nuova costruzione? la questione della preesistenza

Un altro punto fondamentale chiarito dal Consiglio di Stato con la sentenza n° 2857/2025 riguarda il confine, spesso sfumato, tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione. Secondo i giudici, la differenza non si basa tanto sul fatto che l’edificio sia integro o crollato, ma sulla possibilità di individuare con certezza la consistenza originaria del manufatto.

In altre parole, ciò che qualifica un intervento come ristrutturazione è la presenza di un organismo edilizio — anche solo nei suoi elementi minimi — che consenta di identificare volumi, sagoma e struttura originaria. Non è necessario che l’edificio sia integro: può anche trattarsi di un rudere, purché sia possibile documentarne l’aspetto preesistente attraverso rilievi, fotografie, cartografie catastali, o altro materiale tecnico.

Al contrario, si parlerà di nuova costruzione quando l’intervento mira a realizzare ex novo un edificio su un’area priva di evidenze strutturali e senza alcuna possibilità di dimostrare l’esistenza di un organismo edilizio precedente. In questo caso, l’opera genera un “quid novi”, un manufatto mai esistito, e richiede quindi un regime autorizzativo più stringente.

Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato, la ricorrente aveva fornito ampia documentazione sulla struttura originaria della masseria, rendendo possibile la ricostruzione fedele dell’immobile, nel rispetto dei volumi e della sagoma originaria. Per questo motivo, l’intervento non poteva essere qualificato come nuova costruzione, come invece sostenuto dal Comune.

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Funzionalità agricola e vincoli paesaggistici: il ruolo del contesto

Uno degli argomenti utilizzati dall’amministrazione per giustificare il diniego del permesso di costruire riguardava la presunta incompatibilità urbanistica del progetto, situato all’interno di un’area agricola classificata come zona E1 (verde agricolo produttivo) e ricadente nel perimetro del Parco naturale regionale “Otranto – Santa Maria di Leuca”.

Secondo il Comune, l’inserimento di un piccolo spazio destinato alla somministrazione di bevande — una sorta di caffetteria — avrebbe snaturato la destinazione agricola dell’intervento, rendendolo assimilabile a una nuova costruzione non consentita dalla normativa regionale. Tuttavia, il Consiglio di Stato ha ritenuto illogica e contraddittoria questa posizione.

Infatti, lo stesso ente aveva già riconosciuto la congruità del progetto con l’attività agricola, ammettendo la realizzazione di una masseria didattica. In questo contesto, la presenza di uno spazio ristoro — di dimensioni molto contenute rispetto all’intero complesso — è stata considerata funzionale e coerente con le finalità dell’iniziativa: accoglienza, formazione, educazione ambientale, valorizzazione delle colture locali.

Il principio affermato è chiaro: le funzioni accessorie, se realmente strumentali all’attività principale, non snaturano l’intervento edilizio né la destinazione urbanistica dell’area. Anche perché, come sottolineato nella sentenza, non si trattava di realizzare un esercizio commerciale indipendente, ma di fornire un servizio integrato al progetto didattico e agricolo.