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Cambio destinazione d’uso: perché ora servono nuovi permessi nei comuni turistici

Una sentenza del Consiglio di Stato conferma i vincoli sul cambio di destinazione d’uso da commerciale a residenziale nei comuni turistici montani, per tutelare la residenza stabile e limitare le seconde case.

Cambio destinazione d’uso: perché ora servono nuovi permessi nei comuni turistici Cambio destinazione d’uso: perché ora servono nuovi permessi nei comuni turistici
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In Trentino, uno dei territori italiani a più alta vocazione turistica, la trasformazione degli immobili da commerciali a residenziali non è solo una questione tecnica: è un tema profondamente legato alla tutela del territorio, alla gestione del turismo e alla salvaguardia delle comunità locali.

Una recente sentenza del Consiglio di Stato ha rimesso al centro questo delicato equilibrio, pronunciandosi su una controversia tra un ente locale e un soggetto privato in merito al cambio di destinazione d’uso di un edificio situato in una località ad alta intensità turistica.

Il caso riguarda un intervento edilizio autorizzato inizialmente per finalità commerciali, poi modificato attraverso una variante per ottenere l’uso residenziale. Ma cosa succede quando un cambio del genere riattiva vincoli stringenti imposti dalle leggi provinciali contro la proliferazione delle seconde case? Il Comune può imporre destinazioni a “residenza ordinaria”?

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La variante edilizia contestata

Tutto nasce da un intervento edilizio regolarmente autorizzato nel 2020, in un Comune trentino classificato a vocazione turistica. L’immobile oggetto del permesso di costruire era destinato, nella sua interezza, a uso commerciale: una demolizione e ricostruzione con cambio di destinazione d’uso da residenziale a commerciale, formalmente approvata e con un titolo edilizio già efficace.

Negli anni successivi, però, il progetto cambia direzione. L’intervento edilizio viene modificato: viene presentata una variante che prevede il ritorno, almeno parziale, alla destinazione residenziale. L’immobile viene così ripensato: i piani superiori vengono suddivisi in sette appartamenti, con una destinazione d’uso che include abitazioni per il tempo libero e la vacanza. Al piano terra e al piano interrato, invece, viene mantenuta la funzione commerciale.

Leggi anche: Trasformazione di un negozio in abitazione: si può fare?

Tuttavia, il Comune non ha accettato questa modifica in modo incondizionato. In sede di rilascio del nuovo permesso di costruire, ha imposto un vincolo preciso: tre delle nuove unità abitative dovranno essere destinate a residenza ordinaria, applicando quanto previsto dalla normativa provinciale per contenere la diffusione delle seconde case.

La parte privata ha impugnato il provvedimento, contestando proprio l’applicazione di queste limitazioni alla destinazione d’uso, ritenendo che la legge non dovesse applicarsi all’edificio in questione. Il cuore del contenzioso si è così spostato sulla qualificazione della variante edilizia: si trattava davvero di una modifica così sostanziale da rientrare nelle maglie delle restrizioni normative?

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Le norme in gioco: Legge Gilmozzi e L.P. 1/2008

Nel cuore della vicenda troviamo una normativa provinciale chiara, ma spesso oggetto di interpretazioni contrastanti: l’articolo 57 della Legge Provinciale n. 1 del 2008, che recepisce e sviluppa i principi introdotti dalla cosiddetta “Legge Gilmozzi” (L.P. n. 16/2005), e che punta a contenere l’aumento delle seconde case nei comuni turistici del Trentino.

L’obiettivo della legge è sociale e ambientale al tempo stesso: evitare lo svuotamento dei centri abitati montani, frenare la pressione immobiliare legata al turismo, e tutelare la residenzialità stabile. Per questo, la norma prevede che, nei Comuni a vocazione turistica (come quello interessato dal caso), non più del 50% delle nuove unità abitative ottenute attraverso il cambio di destinazione d’uso possano essere utilizzate come seconde case. Il restante 50% deve essere invece destinato a residenza ordinaria, vincolata nel libro fondiario.

Nel caso analizzato, il Comune ha ritenuto che la variante presentata rappresentasse un nuovo intervento edilizio sostanziale, e non una semplice modifica in corso d’opera. Di conseguenza, ha applicato le restrizioni previste dalla legge, imponendo che tre delle nuove unità fossero vincolate all’uso abitativo stabile.

La parte privata ha tentato di sottrarsi all’applicazione della normativa facendo riferimento all’articolo 12, comma 7, della L.P. 16/2005, che esclude i vincoli per gli edifici già residenziali alla data di entrata in vigore della legge. Tuttavia, secondo i giudici, questo ragionamento non regge: l’edificio, a quella data, aveva già acquisito una destinazione commerciale legittimata dal permesso di costruire del 2020.

Di fatto, si stava proponendo una nuova trasformazione da commerciale a residenziale, pienamente soggetta alla normativa restrittiva.

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La decisione del Consiglio di Stato: sì ai vincoli per la residenza ordinaria

Il cuore giuridico della vicenda sta tutto nella qualificazione della variante edilizia: si trattava di una semplice modifica in corso d’opera o di un nuovo intervento edilizio? Per il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 7327/2025 non ci sono dubbi. La trasformazione proposta attraverso la variante non era un’innocua revisione del progetto originario, ma un cambio sostanziale di destinazione d’uso, con effetti giuridici rilevanti.

Il titolo edilizio originario del 2020, che autorizzava l’intero edificio alla destinazione commerciale, era già perfetto ed efficace. Il successivo ritorno alla destinazione residenziale – anche se solo parziale – costituiva un nuovo fatto costruttivo, e come tale richiedeva un nuovo titolo edilizio. E proprio per questo nuovo intervento, secondo il Consiglio di Stato, dovevano trovare piena applicazione le restrizioni previste dall’articolo 57 della L.P. 1/2008.

Il Comune, nel rilasciare il nuovo permesso, aveva quindi agito nel rispetto della legge, imponendo correttamente che almeno tre delle unità immobiliari fossero destinate a residenza ordinaria. Nessun eccesso di potere, nessuna discrezionalità: l’amministrazione si è limitata ad applicare una norma obbligatoria per tutti gli interventi che comportano il passaggio da destinazioni non residenziali a residenziali nei comuni turistici.

Inoltre, il Consiglio ha evidenziato come l’intento della normativa sia quello di evitare la proliferazione incontrollata di seconde case, soprattutto in zone già sottoposte a forte pressione turistica. Un obiettivo che assume un rilievo costituzionale, secondo i giudici, in quanto legato alla tutela delle zone montane e alla conservazione del tessuto sociale.



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TAGS: cambio destinazione d'uso, comuni turistici, edilizia residenziale, legge Gilmozzi, normativa urbanistica, residenza ordinaria, seconde case, sentenza Consiglio di Stato, variante edilizia, vincoli edilizi

Autore: Andrea Dicanto

Autore Andrea Dicanto
Appassionato Progettista esperto nel settore dell'Edilizia, delle Costruzioni e dell'Arredamento. Fin da giovane ho sempre studiato ed analizzato problematiche che vanno dalle questioni statiche di edifici e costruzioni fino al miglior modo di progettare ed arredare gli spazi interni, strizzando l'occhio alle nuove tecnologie soprattutto in ambito sismico.

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