Una tettoia abusiva in area vincolata non può essere sanata: il Consiglio di Stato respinge il ricorso e chiarisce i limiti di condono, anche alla luce del Decreto Salva Casa.

In un’Italia in cui il dibattito sull’abusivismo edilizio resta più vivo che mai, la recente sentenza del Consiglio di Stato riaccende i riflettori su un tema cruciale: quando un’opera abusiva può essere sanata e quando no? E, soprattutto, il Decreto Salva Casa consente davvero di regolarizzare tutto ciò che prima era vietato?
La risposta, come spesso accade in diritto, è: dipende. Lo dimostra un caso emblematico giunto fino ai giudici di Palazzo Spada, riguardante una tettoia metallica realizzata senza titolo edilizio all’interno del Parco dell’Appia Antica, a Roma. Un’opera apparentemente secondaria, ma che ha messo in discussione principi fondamentali dell’urbanistica italiana: la natura delle pertinenze urbanistiche, l’efficacia dei vincoli paesaggistici, e il vero impatto delle nuove norme introdotte con il Decreto Salva Casa.
Il Consiglio di Stato ha confermato il diniego di condono già espresso dal Comune di Roma e ha stabilito che anche con le nuove regole non tutto può essere regolarizzato, soprattutto se si tratta di opere realizzate in aree tutelate.
Ma cosa dice esattamente la sentenza? Quali sono le norme violate? E perché neppure il Salva Casa può intervenire in questi casi?
Continua a leggere per scoprirlo.
Sommario
Tutto ha inizio con la realizzazione, da parte di un’impresa operante nel settore produttivo, di una tettoia in struttura metallica aperta sui lati, destinata al ricovero temporaneo di materiali in attesa di stoccaggio. L’opera, però, veniva realizzata senza alcun titolo abilitativo, cioè in totale assenza di permesso di costruire o altra autorizzazione urbanistica. La superficie coperta era tutt’altro che trascurabile: oltre 74 metri quadrati.
Nel 2004, i proprietari presentarono un’istanza di condono edilizio straordinario ai sensi della legge n. 326/2003 (il cosiddetto terzo condono) e della legge regionale Lazio n. 12/2004, sostenendo che l’opera fosse pertinenziale all’attività principale e che, proprio per questa sua natura, potesse rientrare tra quelle sanabili. Una tesi sostenuta con forza in tutte le fasi del giudizio.
Approfondisci: Ritorna il condono edilizio del 2003? polemiche e accuse al governo
Tuttavia, l’amministrazione capitolina respinse la richiesta di condono, motivando che il manufatto era stato realizzato all’interno del perimetro del Parco dell’Appia Antica, area vincolata paesaggisticamente, dove la legge vieta espressamente la sanatoria di opere che determinino nuove superfici o volumi. Un divieto che – come ha poi sottolineato la giustizia amministrativa – si applica a prescindere dalla data di apposizione del vincolo e dalla destinazione d’uso dell’opera.
I ricorrenti, dopo una prima battuta d’arresto davanti al TAR Lazio, hanno insistito proponendo appello al Consiglio di Stato, cercando di far valere, tra l’altro, anche la normativa sopravvenuta del 2024. Ma la massima giurisdizione amministrativa ha confermato quanto già stabilito: l’opera è abusiva, non rientra nei casi condonabili e deve essere rimossa.
Advertisement - PubblicitàPer comprendere a fondo la decisione del Consiglio di Stato è necessario partire dal quadro normativo di riferimento, che in questo caso è piuttosto chiaro e articolato. Le leggi coinvolte sono principalmente due: la legge 326/2003, che ha introdotto il cosiddetto terzo condono edilizio, e la legge regionale Lazio n. 12/2004, che ne ha regolamentato l’applicazione sul territorio laziale.
Queste norme stabiliscono una serie di limiti molto netti alla possibilità di sanare opere edilizie abusive, soprattutto quando esse insistono su immobili o aree soggetti a vincoli ambientali, paesaggistici, archeologici o storici. In particolare, l’art. 3, comma 1, lettera b) della L.R. 12/2004, richiamato anche nella sentenza, esclude espressamente la possibilità di condonare interventi realizzati in aree vincolate, come quella del Parco dell’Appia Antica, se comportano aumento di superficie o volume, indipendentemente dalla data in cui è stato imposto il vincolo.
Ciò significa che non conta se l’abuso è precedente o successivo all’adozione del vincolo: il semplice fatto che l’opera comporti una trasformazione rilevante del territorio – come nel caso di una tettoia di oltre 70 mq – la rende automaticamente non condonabile.
A nulla sono valse le argomentazioni dei ricorrenti che insistevano sulla natura pertinenziale del manufatto: per i giudici, ciò non cambia il dato giuridico essenziale, cioè l’impossibilità di derogare al divieto di sanatoria in zona vincolata. E come vedremo, neppure il nuovo Decreto Salva Casa può superare questo limite.
Advertisement - PubblicitàUno degli argomenti principali portati avanti dai ricorrenti riguardava la presunta natura pertinenziale della tettoia, sostenendo che, trattandosi di una struttura accessoria al fabbricato produttivo esistente, non dovesse essere considerata come nuova costruzione, e quindi fosse sanabile.
Ma il Consiglio di Stato ha rigettato con decisione questa tesi, chiarendo un concetto giuridico fondamentale: la pertinenza urbanistica non coincide con la pertinenza civilistica. Mentre nel diritto civile una pertinenza è qualunque cosa destinata in modo durevole al servizio di un bene principale (come ad esempio un box auto o una recinzione), in ambito edilizio il concetto è molto più ristretto e tecnico.
Secondo una giurisprudenza ormai consolidata, richiamata espressamente anche nella sentenza (con numerosi precedenti), può essere considerata “pertinenza urbanistica” solo un’opera di modesta entità, priva di autonomia funzionale, e che non comporti un impatto significativo sul territorio. In sostanza: nessun nuovo volume, nessuna nuova superficie utile, nessuna trasformazione stabile dell’assetto urbanistico.
Nel caso specifico, la tettoia in metallo aperta sui lati, con superficie di oltre 74 mq, è stata ritenuta un’opera che incide visivamente e funzionalmente sul paesaggio, in grado di modificare il territorio e, pertanto, non assimilabile a una semplice pertinenza. Da qui, la sua esclusione dal perimetro delle opere condonabili, anche a prescindere dalla presenza del vincolo.
Leggi anche: Demolire o pagare? Quando la tettoia diventa abuso edilizio
Advertisement - PubblicitàNel tentativo di ottenere la sanatoria del manufatto, i ricorrenti hanno provato a giocare una carta importante: l’introduzione, nel 2024, del cosiddetto “Decreto Salva Casa” (D.L. n. 69/2024, convertito con L. n. 105/2024), un provvedimento molto atteso che ha modificato il Testo Unico dell’Edilizia introducendo l’art. 36-bis al DPR 380/2001.
Questa nuova disposizione consente in alcuni casi la regolarizzazione semplificata di difformità edilizie minori, anche su opere realizzate senza titolo o con titoli non conformi. I ricorrenti hanno cercato di far valere questa norma sopravvenuta, sostenendo che la tettoia – pur se abusiva – avrebbe potuto oggi essere regolarizzata con procedura ordinaria, anche se non ammessa al condono straordinario.
Ma anche su questo punto il Consiglio di Stato è stato chiaro: la nuova normativa non è applicabile al caso concreto, e non può ribaltare provvedimenti già adottati. Il principio giuridico applicato è quello del “tempus regit actum”, secondo cui la legittimità di un atto amministrativo si valuta in base alla normativa vigente al momento della sua emanazione, non a quella successiva.
In altre parole, anche se oggi – in un diverso contesto normativo – l’opera potesse teoricamente rientrare in qualche ipotesi di regolarizzazione, ciò non incide su una sanatoria già negata in via definitiva. Tanto più che, in questo caso, la presenza del vincolo paesaggistico rende comunque inapplicabile qualsiasi procedura semplificata.
Un chiarimento importante, che aiuta a delimitare la reale portata del Decreto Salva Casa, spesso percepito come uno strumento “totale” per sanare qualunque abuso: non è così, e le zone vincolate restano un limite invalicabile.
Approfondisci: Decreto Salva Casa: la guida completa, ecco cosa puoi sanare
Advertisement - PubblicitàAl centro della decisione del Consiglio di Stato vi è un principio che rappresenta uno dei pilastri del diritto urbanistico e ambientale italiano: la tutela dei beni paesaggistici prevale su qualsiasi interesse privato, anche quando l’opera abbia una funzione pratica o “temporanea”.
Nel caso specifico, la tettoia era stata realizzata all’interno del Parco Regionale dell’Appia Antica, un’area sottoposta a vincolo paesaggistico e ambientale. Come chiarito dalla normativa nazionale (art. 32 del D.L. 269/2003, convertito in L. 326/2003) e da quella regionale (art. 3, comma 1, lett. b della L.R. Lazio 12/2004), le opere abusive che comportano nuova volumetria o superficie in aree vincolate non possono essere condonate, né attraverso le sanatorie straordinarie né mediante procedure ordinarie di regolarizzazione.
La presenza del vincolo, dunque, blocca in automatico ogni possibilità di sanatoria, senza che sia necessaria una valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione o una verifica paesaggistica nel merito. Non importa che l’opera sia “modesta” o funzionale all’attività produttiva: se incide stabilmente sull’assetto del territorio in un’area protetta, va rimossa.
Il Consiglio di Stato ha inoltre evidenziato che nessuna efficacia sospensiva può derivare dai vecchi accordi istituzionali, come il piano di delocalizzazione delle attività produttive sottoscritto nel 2004 tra Regione, Comune di Roma e Ente Parco. Anzi, proprio quel piano prevede la rinuncia ai condoni e la demolizione dei manufatti non autorizzati all’interno del parco.
In definitiva, la sentenza ribadisce un principio già espresso più volte dalla giurisprudenza: i vincoli paesaggistici rappresentano un confine netto, che non può essere oltrepassato né con interpretazioni estensive delle norme, né con strumenti legislativi sopravvenuti.
Approfondisci: Fiscalizzazione dell’abuso edilizio? Impossibile con vincolo paesaggistico
Advertisement - PubblicitàLa sentenza n. 5141/2025 del Consiglio di Stato non rappresenta solo la chiusura definitiva di un caso specifico, ma assume un valore ben più ampio nel panorama dell’edilizia italiana. Essa conferma, con fermezza, che la tutela del paesaggio e dell’ambiente resta una priorità assoluta, anche di fronte a nuove aperture normative come quelle previste dal Decreto Salva Casa.
In un’epoca in cui si tenta – giustamente – di semplificare le regole e ridurre il contenzioso edilizio, è importante ricordare che esistono confini normativi che non possono essere elusi. Le opere realizzate in aree vincolate e che producono un effettivo impatto urbanistico – in termini di volume, superficie o trasformazione del suolo – non sono sanabili, né con il condono straordinario né con gli strumenti di regolarizzazione introdotti in tempi più recenti.
La distinzione tra pertinenza civilistica e urbanistica, spesso invocata per giustificare costruzioni “minori”, viene qui definitivamente chiarita: ciò che è “pertinenza” per il Codice Civile non lo è necessariamente per le norme edilizie. E soprattutto, non lo è quando si supera una certa soglia dimensionale o si altera la configurazione del territorio.
Questa pronuncia rafforza un messaggio chiaro a cittadini, imprese e tecnici: non tutto è regolarizzabile, anche se può apparire funzionale o innocuo. Il rispetto delle regole urbanistiche e paesaggistiche non è un’opzione, ma un elemento essenziale per una pianificazione sostenibile e legittima del territorio.
Compila il form sottostante: la tua richiesta verrà moderata e successivamente inoltrata alle migliori Aziende del settore, GRATUITAMENTE!









