Il TAR Lazio conferma l’impossibilità di modificare vecchie domande di condono e ribadisce l’obbligo del parere idrogeologico per opere abusive in zone a rischio, anche se minime.
Nel complesso e spesso contraddittorio panorama dell’edilizia italiana, il condono edilizio rappresenta da sempre una sorta di “via d’uscita” per regolarizzare opere realizzate senza titolo abilitativo. Tuttavia, nonostante i molteplici tentativi legislativi per agevolare la regolarizzazione del costruito, non tutte le situazioni possono essere sanate.
Lo ha ribadito una recente sentenza del TAR, che ha confermato l’impossibilità di ottenere il condono per opere abusive realizzate in zona soggetta a vincolo idrogeologico, e ha chiarito che modificare una vecchia domanda di sanatoria presentata nel 2003 è oggi giuridicamente inammissibile.
Il caso è emblematico di molte altre situazioni simili: cittadini che, a distanza di oltre vent’anni, cercano di adeguare vecchie domande di condono alle nuove condizioni del territorio, magari per sistemare formalmente immobili ormai consolidati e utilizzati da decenni.
Ma cosa succede quando il tempo passa e i vincoli cambiano? E quando una domanda di condono diventa, di fatto, non più modificabile?
È davvero possibile sanare tutto? E quali sono i limiti oltre i quali il condono non può più essere invocato?
Sommario
Tutto ha avuto inizio nel 2003, quando venne presentata una domanda di condono edilizio nell’ambito del cosiddetto “terzo condono” previsto dal D.L. 269/2003, convertito nella Legge 326/2003. La richiesta riguardava diverse opere eseguite su un immobile situato in una zona agricola del Comune di Tarquinia: interventi interni all’abitazione, modifiche ai prospetti, realizzazione di cancelli, sistemazioni esterne e il cambio di destinazione d’uso di un locale da deposito a residenziale autonomo.
Nel corso degli anni, la procedura si è complicata: due dei quattro interventi originari erano già stati respinti nel 2007 e 2008, e la relativa impugnazione era stata rigettata definitivamente nel 2021. Gli altri due interventi (manutenzione straordinaria e cambio d’uso) erano rimasti in sospeso fino al 2024, quando il richiedente ha cercato di modificare la domanda originaria, rinunciando in parte ad alcune opere e riformulando altre, con l’obiettivo di farle rientrare in categorie edilizie più facilmente sanabili.
Il Comune ha però rigettato nuovamente la richiesta, ritenendo inammissibile la modifica della domanda a distanza di 20 anni, e motivando il nuovo diniego anche con l’assenza del necessario parere idrogeologico, trattandosi di zona sottoposta a vincolo.
Il caso è così tornato davanti al TAR, dove si è deciso se la modifica fosse legittima e se il Comune avesse operato correttamente nel respingere la sanatoria.
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Advertisement - PubblicitàUno degli aspetti centrali della vicenda riguarda la pretesa di modificare, nel 2024, una domanda di condono presentata nel lontano 2003. L’intento era quello di “ammorbidire” la natura degli interventi originariamente dichiarati: da ristrutturazione con cambio di destinazione d’uso a semplice manutenzione straordinaria, e da volumi tecnici a opere minori, già in parte demolite o rimosse.
Il tutto per tentare di far rientrare le opere nei casi sanabili secondo la normativa.
Ma su questo punto il TAR è stato netto: le domande di condono non sono modificabili nella loro sostanza dopo la scadenza del termine fissato per la presentazione, pena la decadenza dell’istanza stessa. Eventuali correzioni sono ammesse solo per errori materiali o refusi evidenti e immediatamente verificabili (“ictu oculi”), ma non per modifiche che comportano un diverso oggetto sostanziale o una diversa qualificazione urbanistica dell’intervento.
In sostanza, chi nel 2003 ha dichiarato una ristrutturazione edilizia con cambio d’uso, non può oggi sostenere che si trattasse solo di manutenzione, magari con la speranza di evitare il parere paesaggistico o idrogeologico. Le dichiarazioni rese nella domanda originaria vincolano l’istruttoria e non possono essere riscritte a distanza di decenni, anche se nel frattempo l’opera è stata demolita, trasformata o regolarizzata con altri titoli.
Advertisement - PubblicitàIl secondo motivo che ha portato al rigetto della domanda di condono riguarda un tema spesso sottovalutato: la necessità del parere dell’autorità competente sul rischio idrogeologico. L’immobile oggetto della sanatoria si trova infatti in un’area classificata come a “pericolo d’inondazione elevato”, secondo il Piano di Assetto Idrogeologico (P.A.I.), uno strumento tecnico-normativo che definisce le condizioni di rischio di un territorio rispetto a fenomeni naturali come frane e alluvioni.
Secondo la ricorrente, gli interventi da sanare rientravano tra quelli “consentiti” nelle zone vincolate e, di conseguenza, non sarebbe stato necessario alcun parere formale. Tuttavia, il TAR ha respinto questa tesi, chiarendo un principio fondamentale: è sempre l’autorità preposta al vincolo – e non il cittadino – a decidere se un intervento sia compatibile o meno con il rischio idrogeologico. Anche quando l’intervento è apparentemente lieve o “consentito”, serve comunque un esame specifico, perché solo l’ente tecnico competente può valutare l’effettivo impatto dell’opera sul territorio.
Nel caso specifico, il parere non era mai stato rilasciato: la richiesta era stata prima presentata alla Provincia, poi ritirata dalla stessa parte ricorrente nel 2024. Di conseguenza, il Comune si è trovato senza il parere obbligatorio e ha dovuto rigettare l’istanza, come previsto dalla normativa vigente.
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Advertisement - PubblicitàQuando si parla di condono edilizio, uno degli errori più frequenti è credere che basti aver presentato la domanda nei tempi previsti per ottenere automaticamente la sanatoria. Ma la realtà è ben diversa, soprattutto quando l’immobile è situato in una zona soggetta a vincoli, come quelli idrogeologici, paesaggistici, sismici o archeologici.
In questi casi, la legge richiede espressamente il parere favorevole dell’autorità competente: senza questo passaggio, il condono è impossibile, anche se tutte le altre condizioni sono soddisfatte.
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La sentenza del TAR Lazio si inserisce in una consolidata giurisprudenza amministrativa che ribadisce con forza questo concetto: la presenza di un vincolo impone un controllo pubblico preventivo, che non può essere aggirato nemmeno in buona fede. Il Consiglio di Stato, in più sentenze (tra cui la n. 4184/2025 e la n. 6140/2021), ha affermato che il vincolo ha effetto anche se introdotto dopo la domanda di condono, e che la compatibilità delle opere con il vincolo non può essere autodichiarata dal cittadino. In altre parole, non basta dire che l’opera è “di lieve impatto” o che “è stata demolita”: serve comunque il parere formale.
Nel caso esaminato, la ricorrente aveva persino ritirato la propria richiesta di parere idrogeologico, sostenendo che non fosse necessario. Ma il TAR ha smentito questa tesi: è l’autorità – in questo caso la Provincia o l’Autorità di Bacino – a stabilire se il parere è necessario e se l’opera è compatibile con le condizioni del territorio. Rinunciare a quel parere, anche per semplificare la procedura, significa automaticamente impedire l’accoglimento della domanda di condono.
Inoltre, la sentenza evidenzia come la qualificazione urbanistica delle opere non può essere modificata a posteriori, cercando di “scendere di categoria” (es. da ristrutturazione a manutenzione) per eludere l’obbligo del parere. Una strategia che non solo non funziona, ma può rendere l’intera istanza inammissibile, come accaduto in questo caso.
In definitiva, la giurisprudenza è chiara: nessuna sanatoria è possibile in presenza di vincoli senza la preventiva verifica di compatibilità, e il contenuto della domanda di condono non può essere riscritto a distanza di anni per renderla “più digeribile” alle amministrazioni.
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