La Cassazione ha annullato una condanna per rumori da ristrutturazione, ribadendo che serve prova concreta del disturbo arrecato a più persone, non bastano supposizioni o testimonianze isolate.
In condominio, si sa, la convivenza non è sempre semplice. I rumori, soprattutto quelli provocati da lavori di ristrutturazione, possono facilmente trasformarsi in motivo di tensione e, nei casi più gravi, persino in procedimenti penali. Ma fino a che punto un rumore può essere considerato penalmente rilevante? Quando si supera il limite della “normale tollerabilità”? E cosa serve davvero per dimostrare che quel disturbo ha violato la quiete altrui?
Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato proprio questi interrogativi, annullando la condanna di un cittadino accusato di aver turbato il riposo dei vicini durante lavori di ristrutturazione. I giudici hanno ribadito principi fondamentali in materia di disturbo della quiete pubblica, stabilendo criteri chiari per distinguere i semplici fastidi condominiali dai veri e propri illeciti penali.
Cosa è successo esattamente? E perché la Suprema Corte ha deciso di annullare la condanna? Continua a leggere per scoprirlo.
Sommario
Il procedimento penale è nato da una situazione piuttosto comune nei condomini italiani: lavori di ristrutturazione all’interno di un appartamento, con i conseguenti rumori di trapani, martelli e spostamento di materiali. Secondo l’accusa, questi suoni sarebbero stati particolarmente insistenti e molesti, tanto da superare la normale tollerabilità e disturbare il riposo degli altri condomini.
Il giudice di primo grado aveva accolto la tesi accusatoria, ritenendo l’imputato responsabile del reato previsto dall’art. 659 del Codice penale, che punisce chi “disturba le occupazioni o il riposo delle persone” con un’ammenda. La condanna era stata motivata facendo riferimento anche al fatto che i lavori si sarebbero svolti in orari non consentiti dal regolamento condominiale, anche se – come emerso in seguito – tale regolamento non era stato acquisito al fascicolo e non risultava oggetto di testimonianze dirette.
Un altro elemento critico della sentenza di primo grado riguardava la valutazione della prova del disturbo: il Tribunale si era limitato a un’affermazione generica sull’evidenza del disagio arrecato ai condomini, senza fornire un’analisi approfondita sull’effettiva idoneità dei rumori a disturbare una parte consistente degli abitanti del palazzo.
Queste fragilità motivazionali sono state centrali nel successivo ricorso in Cassazione, dove la difesa ha contestato la validità del percorso logico seguito dal giudice di merito.
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Advertisement - PubblicitàLa difesa dell’imputato ha impugnato la sentenza del Tribunale sollevando due motivi principali. Il primo riguardava un presunto travisamento della prova: secondo l’avvocato, il giudice aveva erroneamente fondato la condanna sulla violazione del regolamento condominiale, il quale però non era mai stato acquisito agli atti né menzionato dai testimoni ascoltati. Di conseguenza, si trattava – secondo la difesa – di una prova inesistente, usata impropriamente come fondamento della decisione.
Il secondo motivo di ricorso ha puntato sul cuore dell’accusa: la mancanza di dimostrazione concreta del disturbo. La giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione, infatti, ha più volte precisato che per configurare il reato di cui all’art. 659 c.p. è necessario che i rumori siano tali da arrecare disturbo non a uno o due vicini soltanto, ma a una parte significativa degli abitanti dell’edificio. Nel caso in esame, però, le dichiarazioni testimoniali non avrebbero confermato questa diffusione del disagio: uno dei pochi testi escussi, residente nell’appartamento sottostante a quello interessato dai lavori, aveva anzi affermato che né lui né sua moglie erano stati disturbati dai rumori.
Secondo la difesa, quindi, non vi erano né prove tecniche (come perizie fonometriche), né riscontri testimoniali sufficienti per affermare che i rumori prodotti superassero la soglia della normale tollerabilità e turbassero realmente la quiete condominiale. Da qui la richiesta di annullamento della condanna per mancanza di prova del reato.
Advertisement - PubblicitàLa Corte di Cassazione con la sentenza n. 7717/2024 ha accolto il ricorso, ritenendo fondate le critiche mosse dalla difesa. Secondo i giudici, la motivazione della sentenza di primo grado era carente e inadeguata, in quanto non spiegava in modo convincente perché i rumori prodotti durante i lavori di ristrutturazione potessero effettivamente configurare il reato contestato.
Nel richiamare la propria giurisprudenza consolidata, la Cassazione ha ribadito che, per configurare la contravvenzione di cui all’art. 659 c.p., non serve che il disturbo interessi un’area vasta, ma è comunque necessario che sia idoneo ad arrecare fastidio a una collettività, anche ristretta, come un condominio. Tuttavia, la condanna penale non può basarsi su mere supposizioni o su fastidi soggettivi riferiti da un numero esiguo di persone.
La Corte ha anche ricordato che l’attitudine dei rumori a disturbare può essere dimostrata anche senza perizie tecniche, purché vi siano elementi oggettivi sufficienti – come testimonianze attendibili e puntuali – che dimostrino il superamento della normale soglia di tollerabilità. Nel caso specifico, però, tali elementi non erano emersi con chiarezza: al contrario, la testimonianza chiave aveva escluso qualsiasi disturbo percepito.
In conclusione, la Suprema Corte ha stabilito che la sentenza impugnata era viziata da un’evidente carenza argomentativa e probatoria, e ha disposto l’annullamento con rinvio per un nuovo giudizio da parte del Tribunale, che dovrà essere svolto da un giudice diverso.
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Advertisement - PubblicitàQuesta pronuncia della Corte di Cassazione rappresenta un punto fermo per chi vive, lavora o gestisce immobili in ambito condominiale. Chiarisce, ancora una volta, che non ogni rumore molesto è automaticamente un reato, anche quando nasce in un contesto delicato come quello delle ristrutturazioni edilizie.
Per configurare il reato di disturbo previsto dall’art. 659 c.p., non basta che il rumore dà fastidio a un singolo vicino: serve la prova che esso abbia un’effettiva capacità di disturbare una pluralità di persone, anche se concentrate nello stesso edificio. Non è necessario produrre una perizia acustica, ma servono testimonianze precise, coerenti e riferite a un disturbo oggettivamente rilevabile, che superi la normale tollerabilità. Altrimenti, il conflitto resta confinato nella sfera civilistica o condominiale, e non entra nel penale.
Per chi ristruttura casa, è quindi fondamentale rispettare gli orari previsti dai regolamenti interni e ridurre il più possibile le immissioni sonore, ma può anche difendersi da accuse infondate. D’altro canto, per i condomini che subiscono effettivi disagi, è importante raccogliere prove solide (come video, registrazioni, testimonianze plurime) per sostenere un’eventuale denuncia.
In definitiva, la sentenza non legittima il rumore incontrollato, ma pone un limite chiaro all’uso del diritto penale come strumento per risolvere controversie che, spesso, trovano sede più opportuna nei regolamenti di condominio o nelle aule civili.
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