La sentenza del TAR chiarisce che ampliamenti volumetrici senza titolo edilizio adeguato costituiscono abuso, anche se coperti da DIA errata. Rigettata la fiscalizzazione per insufficienza della prova tecnica.
Nel vasto panorama dell’edilizia urbana, le ristrutturazioni di abitazioni private rappresentano spesso un terreno scivoloso tra diritto, tecnica e burocrazia. Un ampliamento di pochi metri quadrati, una veranda chiusa, un accesso pedonale creato nel giardino: interventi che, all’apparenza, sembrano innocui, possono trasformarsi in vere e proprie violazioni edilizie se non accompagnati da titoli abilitativi corretti.
È quanto emerge dalla recente sentenza n. 13798/2025 del TAR Lazio, che si è espresso su un caso di ampliamento abitativo ritenuto abusivo da Roma Capitale e sanzionato con un ordine di demolizione. La proprietaria ha cercato di opporsi, sostenendo di aver agito sulla base di una DIA (Dichiarazione Inizio Attività) e denunciando persino un presunto falso nella rinuncia al titolo. Tuttavia, i giudici amministrativi hanno dato piena ragione al Comune, chiarendo ancora una volta quando un intervento edilizio può considerarsi legittimo e quando, invece, diventa sanzionabile.
Ma cosa ha portato a questo verdetto? Quali sono i confini tra manutenzione straordinaria e ristrutturazione edilizia? E quali sono i rischi concreti per chi realizza opere senza un titolo adeguato?
Sommario
La vicenda oggetto della sentenza prende avvio quando il Municipio XV di Roma Capitale emette un’ingiunzione di demolizione per una serie di opere realizzate all’interno di un’abitazione privata. Secondo l’Amministrazione, si trattava di un vero e proprio intervento di ristrutturazione edilizia in assenza di titolo abilitativo, comprendente un ampliamento ad uso residenziale di circa 60 mq — suddiviso in cucina, sala da pranzo e soggiorno — oltre alla creazione di una scala in muratura con apertura su via pubblica.
Le opere, tutte realizzate con struttura in legno, infissi in metallo e copertura inclinata, modificavano sagoma, prospetto e volumetria dell’edificio, e quindi, secondo il Comune, non potevano rientrare nel regime semplificato della DIA, bensì avrebbero richiesto un permesso di costruire o, al massimo, una SCIA alternativa, come previsto dalla normativa edilizia vigente.
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Di fronte all’ordine demolitorio, la proprietaria impugna il provvedimento davanti al TAR, sostenendo che l’intervento fosse già stato regolarmente comunicato tramite DIA in anni precedenti. A suo avviso, dunque, non vi sarebbe stato alcun abuso edilizio, ma piuttosto un vizio procedurale da parte dell’amministrazione.
A complicare la questione, la presenza di una rinuncia formale alla DIA depositata nel 2012, che però la ricorrente contesta come falsificata, avendo presentato denuncia e querela di falso.
Il TAR, tuttavia, non si limita a esaminare la questione formale della rinuncia alla DIA, ma affronta il cuore del problema: la natura sostanziale dell’intervento edilizio e la sua compatibilità con il titolo edilizio inizialmente presentato.
Advertisement - PubblicitàUno degli snodi centrali della decisione riguarda la natura giuridica dell’intervento edilizio: si trattava di un semplice intervento di manutenzione straordinaria oppure di una ristrutturazione edilizia vera e propria?
La ricorrente ha cercato di qualificare l’opera come manutenzione straordinaria, ipotesi che avrebbe consentito l’uso della DIA “semplice” (ai sensi dell’art. 22, comma 1, del D.P.R. 380/2001). Tuttavia, secondo il TAR, questa tesi è del tutto infondata. L’intervento — con aumento della superficie utile, alterazione della sagoma, modifiche al prospetto e creazione di nuovi ambienti abitativi — non poteva in alcun modo essere considerato una semplice manutenzione, ma costituiva a tutti gli effetti una ristrutturazione edilizia con aumento di volumetria.
E proprio questo è il punto: secondo la normativa edilizia (art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 380/2001), gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportano un aumento della volumetria richiedono permesso di costruire. In alternativa, era possibile presentare una DIA in sostituzione del permesso, ma solo versando il contributo di costruzione previsto per legge. Nel caso in esame, però, non risulta che tale contributo sia mai stato pagato, né che la DIA presentata fosse stata qualificata correttamente.
Il TAR rigetta quindi la giustificazione della “barratura errata” nel modulo della DIA — dove era stata selezionata la voce “manutenzione straordinaria” — ritenendo che non si tratti di un errore formale, bensì di un’iniziativa non conforme alle regole urbanistiche. Un semplice modulo sbagliato non basta a legittimare opere che, per la loro entità, modificano radicalmente l’organismo edilizio preesistente.
Advertisement - PubblicitàUno degli argomenti principali portati dalla ricorrente riguardava la rinuncia formale alla DIA presentata nel 2012, che secondo la proprietà sarebbe stata frutto di un falso, con firma non autentica. Su questo punto, infatti, era stata presentata una querela di falso presso il Tribunale ordinario, con l’obiettivo di dimostrare che quella rinuncia non doveva avere alcun valore giuridico.
Tuttavia, per il TAR questa vicenda non è determinante. I giudici amministrativi chiariscono che la rinuncia alla DIA, anche se fosse realmente frutto di un atto falso, non incide sulla legittimità del provvedimento di demolizione, che è stato emesso non a causa della rinuncia, ma per la mancanza di un titolo abilitativo idoneo all’intervento eseguito.
In altre parole, la presunta falsità dell’atto non è la causa del procedimento sanzionatorio, che invece si fonda su un elemento sostanziale: l’intervento edilizio è risultato non conforme alla normativa, a prescindere dalla validità o meno della DIA. Di conseguenza, il TAR afferma che non spetta al giudice amministrativo accertare l’autenticità della rinuncia (tema estraneo al giudizio in corso), ma piuttosto valutare se l’intervento realizzato fosse lecito secondo le norme urbanistiche.
Questo chiarimento è fondamentale: anche un titolo edilizio genuino e valido non può sanare opere che, per loro caratteristiche, avrebbero comunque richiesto un titolo più oneroso o diverso. La vicenda della firma “falsa” si rivela dunque un aspetto accessorio rispetto alla questione principale: l’abuso edilizio sostanziale.
Advertisement - PubblicitàUn ulteriore fronte di difesa sollevato dalla ricorrente riguardava la possibilità di evitare la demolizione attraverso la cosiddetta “fiscalizzazione dell’abuso”, ovvero la trasformazione della sanzione in una multa pecuniaria nei casi in cui la rimozione dell’opera sia tecnicamente impossibile senza compromettere la stabilità del fabbricato esistente. Si tratta di un principio previsto dall’art. 33, comma 2, del D.P.R. 380/2001, pensato per situazioni limite in cui l’intervento ripristinatorio comporterebbe danni irreversibili o gravi al resto dell’edificio.
Nel caso di specie, la ricorrente ha prodotto delle relazioni tecniche che paventavano rischi strutturali derivanti dalla demolizione della parte ampliata. Tuttavia, secondo il TAR, queste segnalazioni erano generiche e non sufficienti a dimostrare in modo rigoroso e documentato l’impossibilità tecnica dell’intervento. Anzi, i giudici sottolineano che la ricorrente non ha nemmeno formalizzato una specifica istanza all’amministrazione per ottenere l’applicazione della sanzione pecuniaria in sostituzione della demolizione.
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Inoltre, le stesse relazioni tecniche non escludevano la possibilità di demolizione, ma si limitavano a indicare la necessità di ulteriori accertamenti, spostando l’onere probatorio su eventuali verifiche future. Questo approccio è stato ritenuto non conforme all’onere della prova previsto dall’art. 64 del Codice del processo amministrativo, secondo il quale spetta al ricorrente dimostrare la concreta impossibilità dell’adempimento.
Di conseguenza, il TAR ha respinto anche questa linea difensiva, affermando che non c’erano i presupposti né giuridici né tecnici per sostituire la demolizione con una sanzione economica.
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