Il TAR Lazio ha rigettato una richiesta di sanatoria per la trasformazione di un sottotetto, ribadendo i limiti della doppia conformità e l’inammissibilità dell’autorizzazione paesaggistica postuma.
 
Negli ultimi anni si è assistito a un crescente numero di richieste di sanatoria per interventi edilizi realizzati in passato senza i necessari titoli abilitativi. In particolare, la trasformazione di sottotetti in locali abitabili è diventata una prassi diffusa, spesso realizzata in epoche in cui le normative regionali o comunali erano più restrittive rispetto a quelle attuali. Tuttavia, il semplice passare del tempo o l’entrata in vigore di leggi più permissive non garantisce automaticamente la possibilità di regolarizzare gli abusi commessi.
Una recente sentenza del TAR del Lazio ha ribadito alcuni principi fondamentali in materia di sanatoria edilizia e compatibilità paesaggistica, respingendo il ricorso di alcuni proprietari che chiedevano la regolarizzazione di un sottotetto trasformato in spazio abitabile nel 2002. Il Tribunale ha sottolineato come l’accertamento di conformità richieda il rispetto della normativa sia al momento della realizzazione dell’opera che a quello della richiesta, e ha escluso la possibilità di un’autorizzazione paesaggistica postuma per gli interventi di ristrutturazione edilizia.
Cosa significa esattamente “doppia conformità”? Quando è possibile ottenere una sanatoria per opere eseguite anni prima? E in quali casi l’amministrazione può ordinare la demolizione di un intervento senza alternative?
Sommario
Nel cuore della vicenda giudiziaria si trova un intervento edilizio effettuato nel 2002, quando i proprietari di alcune unità immobiliari decisero di trasformare il sottotetto dell’edificio in spazi abitabili. L’intervento aveva finalità pratiche e concrete: ampliare le camere da letto, aggiungere bagni e sfruttare al meglio le volumetrie esistenti. Tuttavia, i lavori non erano stati autorizzati da alcun titolo edilizio, e avevano comportato modifiche strutturali all’edificio, tra cui:
Molti anni dopo, i proprietari hanno cercato di regolarizzare l’intervento presentando un’istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del DPR 380/2001, sostenendo che l’intervento fosse nel frattempo divenuto conforme alla normativa vigente, in particolare in virtù della Legge Regionale del Lazio n. 13/2009, che ha reso più flessibile l’utilizzo abitativo dei sottotetti.
L’amministrazione comunale, però, ha rigettato l’istanza con un provvedimento motivato, evidenziando che:
Inoltre, oltre a negare la sanatoria, il Comune ha anche ordinato la demolizione delle opere abusive, invitando i proprietari a ripristinare lo stato originario dei luoghi. Da qui è scaturito il ricorso al TAR, nel tentativo di ottenere l’annullamento del diniego e dell’ordine di demolizione.
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Advertisement - PubblicitàUno dei punti chiave affrontati nella sentenza è il principio della doppia conformità, richiesto dall’art. 36 del DPR 380/2001 per poter ottenere una sanatoria edilizia. Secondo tale norma, un intervento eseguito senza titolo abilitativo può essere sanato solo se è conforme sia alla normativa urbanistica e edilizia vigente al momento della realizzazione, sia a quella in vigore al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Nel caso in esame, i ricorrenti sostenevano che l’intervento fosse conforme alle norme attuali, facendo riferimento a una legge regionale del Lazio del 2009 che ha reso ammissibili interventi simili su sottotetti. Tuttavia, ciò non è stato sufficiente. Il TAR ha ribadito che non basta la conformità alla normativa attuale: è necessario che anche al momento della realizzazione (cioè nel 2002, in questo caso) l’intervento fosse legittimo, e i ricorrenti non sono riusciti a dimostrarlo.
Anzi, dai documenti emersi nel corso del procedimento è risultato che le opere avevano comportato un aumento volumetrico e la creazione di ambienti con altezza ridotta e scarso rapporto aeroilluminante, in contrasto con le prescrizioni del D.M. 5 luglio 1975 allora in vigore.
Il TAR ha anche precisato che l’onere di dimostrare la doppia conformità ricade completamente sul privato: è lui a dover fornire le prove, i documenti tecnici e la dimostrazione che l’intervento era legittimo sin dall’origine. Non può limitarsi a dichiararlo, né chiedere al giudice di acquisire prove in sua vece.
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Advertisement - PubblicitàUn altro aspetto centrale della vicenda riguarda il diniego di sanatoria paesaggistica. I ricorrenti avevano chiesto che l’intervento – pur se avvenuto nel 2002, prima dell’imposizione del vincolo paesaggistico avvenuto nel 2008 – fosse comunque sanabile. La loro tesi si fondava sull’assunto che, in assenza di vincolo all’epoca dei lavori, l’autorizzazione paesaggistica potesse essere concessa anche in via postuma.
Il TAR ha però rigettato fermamente questa argomentazione, richiamando la disciplina contenuta all’art. 167 del D.Lgs. 42/2004. Secondo tale norma, l’autorizzazione paesaggistica postuma è ammessa solo in casi molto limitati, come:
Nel caso esaminato, invece, l’intervento era stato espressamente qualificato come “ristrutturazione edilizia”, in quanto aveva modificato struttura, prospetti e volumi dell’edificio, creando nuovi ambienti abitabili. Di conseguenza, non solo era inammissibile l’autorizzazione paesaggistica postuma, ma non era neanche rilevante il fatto che il vincolo fosse stato imposto successivamente: l’amministrazione è comunque tenuta a valutare se l’opera sia oggi compatibile con la tutela del paesaggio, anche se realizzata prima del vincolo.
Il principio stabilito è molto chiaro: non tutti gli abusi sono sanabili, e nemmeno il passare del tempo o i cambiamenti normativi possono giustificare opere che alterano in modo sostanziale l’aspetto degli edifici in aree paesaggisticamente tutelate.
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Advertisement - PubblicitàNel tentativo di evitare la demolizione delle opere abusive, i ricorrenti hanno invocato la cosiddetta “fiscalizzazione dell’abuso”, prevista dall’art. 34 del DPR 380/2001. Si tratta di un istituto che, in presenza di determinate condizioni, consente di sostituire l’ordine di demolizione con il pagamento di una sanzione pecuniaria, ma solo se la rimozione delle opere risulta tecnicamente impossibile o rischiosa per la staticità dell’edificio.
Tuttavia, anche su questo punto il TAR ha assunto una posizione netta: non è sufficiente affermare che demolire le opere potrebbe compromettere la stabilità dell’immobile, né è possibile delegare al giudice l’accertamento tecnico attraverso una perizia d’ufficio. L’onere di provare in modo rigoroso questa impossibilità spetta al privato, che deve documentarlo in modo chiaro e dettagliato già nella fase amministrativa.
Nel caso specifico, i ricorrenti non avevano prodotto alcuna perizia tecnica, limitandosi a richiedere verifiche ulteriori nel corso del giudizio. Per il TAR, questo approccio è inammissibile: non si può usare il contenzioso per colmare lacune istruttorie che avrebbero dovuto essere risolte prima, con idonea documentazione tecnica.
La conseguenza è stata inevitabile: nessuna fiscalizzazione, e conferma dell’ordine di ripristino. Il Tribunale ha inoltre ricordato che l’impossibilità tecnica di demolizione è un tema che deve essere affrontato nella fase esecutiva, e non può essere usato per bloccare o annullare l’ordine di demolizione già emesso.
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Advertisement - PubblicitàLa sentenza del TAR Lazio rappresenta un punto fermo per chi si occupa di edilizia, sia in ambito tecnico che legale. Dimostra che la regolarizzazione di interventi abusivi non è un automatismo e che ogni richiesta di sanatoria deve poggiare su requisiti precisi e ben documentati.
In particolare, viene chiarito che:
Per i cittadini, ciò significa che interventi effettuati “in buona fede” o in tempi passati non sono automaticamente sanabili, soprattutto in aree vincolate o in presenza di modifiche sostanziali all’edificio. Per i tecnici e i legali, invece, emerge con chiarezza l’importanza di istruire correttamente le pratiche e fornire prove solide già in fase amministrativa, evitando di confidare in contenziosi risolutivi.
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