Il TAR Lazio ha confermato che la SCIA in sanatoria non può regolarizzare abusi edilizi gravi. Solo permesso di costruire, accertamento di conformità o condono possono evitare la demolizione.
La sentenza n. 16587/2025 del TAR Lazio affronta un tema centrale per professionisti, tecnici e cittadini alle prese con opere edilizie realizzate senza permesso: è possibile sanare un abuso edilizio con una SCIA in sanatoria? E soprattutto, cosa accade se questa viene presentata dopo che il Comune ha già ordinato la demolizione?
Nel caso analizzato, due cittadini avevano realizzato interventi di ampliamento sul proprio immobile: una nuova porzione di fabbricato e un allargamento del balcone, entrambi privi di titolo abilitativo. Il Comune ha quindi emesso un’ordinanza di demolizione, contro la quale i proprietari hanno presentato ricorso, sostenendo di aver depositato una SCIA in sanatoria ai sensi dell’art. 37 del DPR 380/2001.
Ma il TAR ha respinto il ricorso, stabilendo con chiarezza che la SCIA non può sanare interventi per cui sarebbe stato necessario un permesso di costruire.
Quali sono quindi i limiti reali della SCIA in sanatoria? In quali casi si può davvero evitare la demolizione? E quando invece bisogna ricorrere all’accertamento di conformità o al condono edilizio?
Sommario
Nel caso in esame, tutto ha avuto origine da un sopralluogo effettuato dalla Polizia Locale presso un immobile situato nel territorio del Comune di Monte Compatri, in provincia di Roma. Durante l’ispezione, le autorità hanno accertato la realizzazione di due opere edilizie prive di autorizzazione:
Entrambi gli interventi sono stati eseguiti in assenza di permesso di costruire, configurando quindi un’ipotesi di abuso edilizio ai sensi della normativa vigente. Il Comune ha quindi adottato un’ordinanza di demolizione, ordinando anche il ripristino dello stato originario dei luoghi.
A questo punto, i proprietari hanno presentato ricorso al TAR, cercando di far valere la SCIA in sanatoria da loro depositata nel frattempo. Tuttavia, come vedremo, il Tribunale ha ritenuto inefficace e irrilevante tale tentativo di sanatoria.
Advertisement - PubblicitàNegli ultimi anni, la SCIA in sanatoria è diventata uno degli strumenti più utilizzati per cercare di regolarizzare interventi edilizi eseguiti in modo non conforme. Tuttavia, è fondamentale comprendere quando può essere davvero usata e quando, invece, è del tutto inefficace.
L’art. 37, comma 4, del DPR 380/2001 consente di presentare una SCIA in sanatoria solo nei casi in cui l’intervento risulti conforme alla normativa urbanistica ed edilizia sia al momento della realizzazione che al momento della presentazione della SCIA (il principio della cosiddetta “doppia conformità formale”). Ma soprattutto, la norma non si applica agli interventi che rientrano tra quelli per i quali la legge richiede un permesso di costruire, come ad esempio ampliamenti strutturali, sopraelevazioni o nuove costruzioni.
Nel caso deciso dal TAR Lazio, i ricorrenti avevano eseguito due interventi sostanziali:
Si trattava, a tutti gli effetti, di nuove costruzioni soggette al rilascio del permesso di costruire. La SCIA in sanatoria, presentata l’11 maggio 2022, era quindi inidonea a regolarizzare gli abusi, sia per la natura degli interventi, sia per il momento in cui è stata depositata, ovvero dopo l’adozione dell’ordinanza di demolizione.
Su questo punto la giurisprudenza amministrativa è unanime: la SCIA o la DIA non possono essere usate come strumenti di sanatoria postuma, salvo nei casi specifici ammessi dall’art. 37. In tutte le altre ipotesi, l’unica via percorribile è quella dell’accertamento di conformità ex art. 36 DPR 380/2001, che richiede però la sussistenza della doppia conformità sostanziale, o in alternativa, la richiesta di un condono edilizio, se e quando previsto da una legge speciale.
La presentazione della SCIA in questo caso non ha avuto alcun effetto sospensivo sull’efficacia dell’ordinanza di demolizione, né ha inficiato la sua legittimità. Come ha ricordato lo stesso TAR, il principio di legalità impone che la realizzazione di un’opera edilizia senza il titolo richiesto la rende abusiva sin dall’origine, e nessuna SCIA presentata a posteriori può “sanare” un abuso di questo tipo.
Advertisement - PubblicitàUno degli errori più comuni nei tentativi di regolarizzazione edilizia riguarda la mancata attenzione ai tempi e agli effetti del silenzio amministrativo. Anche in questo caso, il TAR Lazio ha sottolineato con forza come il semplice deposito di una richiesta di sanatoria non basti a bloccare un’ordinanza di demolizione, se non vengono rispettati i passaggi previsti dalla legge.
Come già visto, nel caso in esame i ricorrenti avevano presentato una SCIA in sanatoria, che il Comune non ha mai formalmente accolto né respinto. Tuttavia, per la legge questo silenzio ha un preciso significato giuridico: si configura come un silenzio-diniego, ossia un rigetto tacito dell’istanza.
In base all’art. 36, comma 3, del DPR 380/2001, l’amministrazione ha 60 giorni di tempo per pronunciarsi su un’istanza di accertamento di conformità (che, a rigore, sarebbe stata la strada corretta da seguire). Trascorso tale termine senza risposta, si forma automaticamente un provvedimento di rigetto, che può essere impugnato entro i successivi 60 giorni, come stabilito dalla giurisprudenza costante (tra cui TAR Lazio, n. 6394/2020; TAR Campania, n. 56/2019).
Nel caso in oggetto, i ricorrenti non hanno mai impugnato questo silenzio-diniego, perdendo quindi ogni possibilità di contrastarne gli effetti. Il risultato? L’ordinanza di demolizione è rimasta pienamente valida, e non è stato possibile far valere in giudizio la SCIA presentata, che avrebbe dovuto essere trasformata, al massimo, in una formale istanza di accertamento di conformità.
Questo passaggio dimostra quanto sia importante, per tecnici e cittadini, non solo scegliere lo strumento giusto (SCIA, permesso di costruire, accertamento di conformità), ma anche rispettare con precisione i tempi e le modalità procedurali, senza i quali anche un’istanza fondata rischia di essere inefficace.
Advertisement - PubblicitàUno degli argomenti sollevati nel ricorso riguardava la presunta carenza di motivazione nell’ordinanza di demolizione. Secondo i ricorrenti, il Comune avrebbe dovuto spiegare le ragioni per cui riteneva necessaria la rimozione degli abusi, o quantomeno avviare un contraddittorio con i diretti interessati, consentendo loro di presentare osservazioni prima dell’adozione del provvedimento.
Il TAR Lazio ha però rigettato anche questa censura, confermando un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato: l’ordine di demolizione, quando riguarda opere eseguite senza titolo edilizio, è un atto vincolato. In altre parole, il Comune non ha alcuna discrezionalità nel decidere se demolire o meno: se c’è un abuso, deve intervenire.
Proprio in quanto atto vincolato, non è necessaria alcuna motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico, né un bilanciamento con gli interessi privati dei proprietari. Come chiarito dal Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria n. 9/2017), non è richiesto nemmeno l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, prevista in via generale dagli articoli 7 e seguenti della legge 241/1990.
L’ordine di demolizione, quindi, non rientra tra quei provvedimenti che devono essere motivati nel merito, e l’amministrazione non è tenuta ad ascoltare preventivamente le ragioni del privato. L’unico presupposto necessario è la verifica della realizzazione di un’opera priva del titolo edilizio richiesto dalla legge.
Il TAR ha inoltre evidenziato che nel caso specifico la SCIA in sanatoria era stata presentata dopo l’adozione dell’ordinanza, e quindi non poteva in alcun modo incidere sulla sua legittimità. Ne consegue che la mancanza di motivazione e di garanzie partecipative non rappresenta un vizio del provvedimento sanzionatorio, ma è una caratteristica strutturale della sua natura vincolata.
Advertisement - PubblicitàUn altro punto centrale del ricorso riguardava la presunta disparità di trattamento: secondo i ricorrenti, nella stessa zona vi sarebbero stati altri immobili con opere edilizie non conformi, che però non sarebbero stati sanzionati dal Comune di Monte Compatri. Una sorta di “due pesi e due misure” che, a loro avviso, avrebbe dovuto invalidare l’ordinanza di demolizione ricevuta.
Tuttavia, anche questo motivo è stato rigettato dal TAR, che ha sottolineato un principio giuridico tanto chiaro quanto spesso ignorato: la disparità di trattamento è rilevante solo se si dimostra l’identità delle situazioni di fatto e una ingiustificata differenza di comportamento da parte dell’amministrazione.
Nel caso specifico, i ricorrenti non hanno fornito alcuna prova concreta di altri abusi edilizi simili nella stessa zona. Nessuna documentazione, nessun confronto oggettivo, nessuna segnalazione dettagliata. Solo affermazioni generiche e non supportate da elementi probatori, che il giudice ha ritenuto del tutto inidonee a dimostrare una violazione del principio di uguaglianza.
Ma non solo. Il TAR ha anche ricordato un passaggio fondamentale della giurisprudenza amministrativa: la legittimità dell’operato della pubblica amministrazione non può essere inficiata dall’eventuale illegittimità commessa in altri casi. In pratica, non si può invocare un trattamento di favore solo perché altri, eventualmente, non sono stati sanzionati.
Il Consiglio di Stato ha chiarito che “la censura di eccesso di potere per disparità di trattamento è riscontrabile soltanto in caso di assoluta identità di situazioni e di assoluta irragionevolezza della differenza di trattamento” (Cons. St., VI, n. 430/2025). E anche in quel caso, spetta al ricorrente fornire la prova dettagliata della discriminazione subita.
In mancanza di questi elementi, la disparità di trattamento non può essere invocata come motivo di annullamento di un atto legittimo. E così è stato in questo caso.
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