Una ristrutturazione edilizia si è trasformata in abuso originario. Il TAR ha legittimato sanzioni elevate, ribadendo che la buona fede non tutela contro gravi irregolarità urbanistiche.
Un intervento di ristrutturazione, all’apparenza regolare e basato su autorizzazioni comunali, può rivelarsi nel tempo un caso emblematico di abuso edilizio, con conseguenze economiche pesantissime per gli acquirenti delle singole unità immobiliari.
È quanto accaduto a Milano, dove un intero stabile è stato trasformato da edificio produttivo a residenziale senza il necessario permesso di costruire, generando sanzioni pecuniarie individuali che hanno superato anche i centomila euro per alcuni condomini.
Ma cosa è successo realmente? Perché la giustizia amministrativa ha respinto le contestazioni dei proprietari?
Sommario
La vicenda prende avvio con una pratica edilizia apparentemente regolare: una denuncia di inizio attività (DIA), presentata nel 2006, che dava il via a un intervento di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione di un edificio sorto originariamente negli anni ’60 con destinazione artigianale.
Il progetto, firmato da una società immobiliare, si fondava formalmente su una finalità produttiva, ma già nella sua impostazione progettuale conteneva elementi ambigui: distribuzione degli spazi, impiantistica e rifiniture che poco avevano a che fare con laboratori o uffici e molto con un uso residenziale. Alla fine dei lavori, nel 2010, lo stabile venne frazionato in oltre sessanta unità, comprensive di box, cantine e posti auto, e venduto a una pluralità di acquirenti.
Nel 2012, a seguito di verifiche urbanistiche, il Comune accertò la completa difformità tra quanto autorizzato e quanto effettivamente realizzato. La trasformazione da edificio produttivo a residenziale era stata compiuta senza permesso di costruire, necessario in base all’art. 23-ter del DPR 380/2001 per i cambi di destinazione d’uso tra categorie funzionali diverse.
Ne seguì l’annullamento in autotutela dei titoli edilizi. I ricorsi contro questo provvedimento furono respinti, rendendo definitivo l’accertamento dell’abuso.
Di fatto, il Comune riconobbe che l’intervento edilizio non solo si era svolto in violazione dei vincoli urbanistici, ma era ab origine privo di legittimità sostanziale, e dunque non più sanabile con le ordinarie procedure.
Leggi anche: Cambio destinazione d’uso immobile: come funziona?
Advertisement - PubblicitàNel 2018, a distanza di sei anni dall’annullamento dei titoli edilizi, i condomini – tramite l’amministratore – hanno tentato di risolvere la situazione avvalendosi di una previsione normativa spesso poco conosciuta ma decisiva in casi simili: l’art. 38 del DPR 380/2001. Questo articolo consente, in presenza di un permesso di costruire annullato, di evitare la demolizione dell’opera a patto che il ripristino non sia tecnicamente possibile e che l’abuso sia derivato esclusivamente dalla decadenza del titolo, non da difformità intrinseche alle opere.
In sostanza, è una sorta di “sanatoria postuma” che trasforma l’ordine di demolizione in una sanzione pecuniaria corrispondente al valore venale delle opere abusive.
Sulla base di questa norma, i condomini chiesero ufficialmente al Comune di Milano di avviare il procedimento per la “fiscalizzazione” dell’abuso. La richiesta venne accolta, ma con una precisazione importante: trattandosi di un complesso edilizio frazionato e venduto a numerosi soggetti, ciascun acquirente sarebbe stato responsabile individualmente per la propria unità. Per stabilire gli importi, il Comune incaricò l’Agenzia delle Entrate – Direzione Territorio – di redigere una perizia estimativa, incarico che si rivelò più complicato del previsto.
L’istruttoria durò quasi quattro anni, durante i quali furono necessarie numerose integrazioni, chiarimenti e confronti tecnici.
Nel 2022 l’Agenzia depositò la relazione finale, indicando il valore delle singole unità in base alla loro destinazione d’uso e al grado di finitura (abitazioni, uffici, magazzini, posti auto). Da lì, il Comune calcolò le sanzioni individuali: in alcuni casi, come quello oggetto del ricorso al TAR, si trattava di cifre superiori ai 160.000 euro. Un importo che ha spinto i proprietari a contestare la metodologia adottata, ritenendola sproporzionata e incoerente con lo spirito dell’art. 38.
Il Comune, secondo i ricorrenti, avrebbe dovuto considerare solo il maggior valore dovuto all’abuso, non l’intero valore commerciale dell’immobile.
Leggi anche: Condono edilizio: limiti volumetrici invariati se il frazionamento non è documentato
Advertisement - PubblicitàQuando la sanzione è stata formalmente notificata, uno dei proprietari ha deciso di impugnarla davanti al Tribunale Amministrativo Regionale, sostenendo che l’importo fosse eccessivo, ingiusto e, soprattutto, incoerente con i principi di equità e buona fede sanciti sia dalla normativa nazionale che dalla giurisprudenza europea.
Al centro del ricorso vi erano diversi punti: in primis, la stima economica dell’Agenzia delle Entrate, che secondo il ricorrente avrebbe dovuto limitarsi a calcolare l’incremento di valore causato dall’abuso, sottraendo il valore dell’edificio preesistente. Invece, il Comune aveva calcolato l’intero valore venale, senza alcuna decurtazione.
Un secondo argomento forte della difesa riguardava il principio di affidamento: i proprietari avevano acquistato le unità immobiliari in buona fede, ritenendo che tutto fosse conforme e autorizzato. Improvvisamente, si sono ritrovati non solo con una casa potenzialmente abusiva, ma anche con una sanzione paragonabile, per importo, a un secondo acquisto. Secondo il ricorso, questa situazione violerebbe il principio di proporzionalità, trasformando una norma pensata per “attenuare” l’impatto della demolizione in un’ulteriore penalizzazione economica.
Infine, veniva contestato anche l’arco temporale di riferimento: il calcolo del valore era stato fatto con riferimento ai prezzi del 2021, mentre l’istanza di fiscalizzazione era stata presentata nel 2018. Per la parte ricorrente, il ritardo dell’Amministrazione non avrebbe dovuto pesare sull’importo finale della sanzione.
Advertisement - PubblicitàIl TAR Lombardia ha ritenuto infondato il ricorso, pronunciando una sentenza (n° 1538/2025) che chiarisce con forza il confine tra semplice irregolarità sanabile e abuso edilizio integrale. Secondo il collegio, la trasformazione dell’edificio – da artigianale a residenziale – non è avvenuta sulla base di un titolo edilizio legittimo poi annullato, ma è stata sin dall’inizio formalmente e sostanzialmente abusiva.
Già nella fase progettuale, le opere mostravano una netta incoerenza con la destinazione dichiarata: impianti, suddivisione degli spazi, richieste di agibilità per uso civile erano tutti indizi che rivelavano l’intento di realizzare abitazioni. In tal senso, i titoli edilizi (DIA) vennero usati in modo strumentale per aggirare la necessità di ottenere un permesso di costruire, richiesto invece per i cambi di destinazione d’uso tra categorie funzionali.
Approfondisci: Casa in regola? Ecco cosa non garantisce il certificato di agibilità
In questo contesto, il TAR ha escluso la possibilità di applicare il regime agevolato dell’art. 38 del Testo Unico Edilizia. Tale norma è stata concepita per offrire una “via d’uscita” solo nei casi in cui l’intervento edilizio sia stato realizzato in buona fede, su autorizzazioni poi annullate per vizi formali o procedurali. Ma qui – secondo i giudici – la buona fede non era invocabile: le opere eseguite erano chiaramente difformi dal titolo fin dalla loro origine.
Riguardo al calcolo della sanzione, il TAR ha ribadito che la legge parla chiaramente di valore venale delle opere e non dell’eventuale differenziale tra prima e dopo l’abuso. Ciò significa che il Comune non era tenuto a detrarre il valore dell’immobile preesistente, anche perché l’intervento aveva comportato la demolizione integrale e la ricostruzione di un edificio del tutto nuovo.
La sanzione, quindi, andava parametrata come se si trattasse di una nuova edificazione.
Sulla questione della proporzionalità, i giudici hanno infine sottolineato che l’applicazione della sanzione pecuniaria è un’eccezione rispetto all’ordinaria demolizione, e che non può essere ulteriormente “ammorbidita” sulla base della situazione economica del singolo. La legge non prevede margini di discrezionalità in questo senso. L’interesse pubblico alla legalità urbanistica prevale, e il fatto che l’immobile sia già abitato o che l’acquirente fosse inconsapevole non è sufficiente, da solo, a giustificare un trattamento sanzionatorio più lieve.
Compila il form sottostante: la tua richiesta verrà moderata e successivamente inoltrata alle migliori Aziende del settore, GRATUITAMENTE!