La recente sentenza del TAR Toscana n. 802/2025 riporta sotto i riflettori un tema spesso sottovalutato ma di cruciale importanza per chi vive, costruisce o ristruttura in zone soggette a vincoli urbanistici o paesaggistici: l’ordine di demolizione di opere abusive può colpire anche chi non è proprietario dell’immobile, ma ne ha la disponibilità o ne fa uso.

Il caso oggetto della pronuncia riguardava una serie di interventi effettuati su un fabbricato in Toscana, tra cui la chiusura di un portico con infissi e la costruzione di manufatti in legno, ritenuti dal Comune privi dei necessari titoli abilitativi.

Il ricorrente ha tentato di difendersi sostenendo la natura minima degli interventi e la loro presunta legittimazione tramite SCIA, ma il Tribunale ha respinto il ricorso, sottolineando principi consolidati della giurisprudenza: non conta solo chi ha materialmente realizzato l’abuso, ma anche chi può effettivamente ripristinare la legalità.

Ma quando un portico chiuso diventa un abuso edilizio vero e proprio? È davvero possibile ricevere un’ordinanza di demolizione pur non essendo il proprietario del bene? E cosa cambia se ci troviamo in una zona vincolata dal punto di vista paesaggistico?

Scopriamo, passo dopo passo, cosa ha deciso il TAR e perché questa sentenza segna un punto fermo per tecnici, proprietari e utilizzatori di immobili.

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Il caso concreto e le opere contestate

Il procedimento trae origine da un’ordinanza comunale di demolizione e rimessa in pristino emessa nel marzo 2020. Gli accertamenti tecnici avevano evidenziato interventi eseguiti in difformità dai titoli edilizi originari e in assenza di autorizzazione paesaggistica, trattandosi di un’area vincolata ai sensi del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.Lgs. 42/2004).

Nel dettaglio, le opere oggetto del contendere erano tre:

  • La chiusura integrale di un portico originariamente aperto su tre lati, trasformato in un ambiente chiuso mediante l’installazione di infissi in PVC. Secondo i tecnici comunali, questa modifica avrebbe comportato un aumento di volumetria e superficie utile, andando oltre quanto assentito con i permessi edilizi originari;
  • Un manufatto in legno addossato al fabbricato, realizzato sul lato nord dell’edificio, completo di tetto a capanna e dimensioni tali da suggerire un utilizzo stabile;
  • Un secondo manufatto in legno, collocato a ridosso di un locale tecnico esistente, ancorato alla muratura e coperto in parte da una tettoia, configurando un ulteriore portico.

Queste opere sono state ritenute non precarie, né di modesta entità, e non rientranti tra gli interventi esclusi dall’obbligo di autorizzazione paesaggistica o sanabili con semplice SCIA. Per questo, l’amministrazione ha imposto la demolizione d’ufficio, ritenendo violato l’assetto edilizio e paesaggistico della zona.

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Le ragioni del comune e la linea del TAR

Uno degli aspetti centrali della controversia ha riguardato l’individuazione del destinatario legittimo dell’ordinanza di demolizione. Il ricorrente, infatti, aveva sostenuto di non essere il proprietario dell’immobile né il responsabile degli interventi, contestando quindi la legittimità dell’ingiunzione ricevuta. Tuttavia, il TAR ha confermato la piena legittimità dell’azione amministrativa, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale: gli ordini di rimozione delle opere abusive possono essere rivolti anche a chi detiene o utilizza l’immobile, indipendentemente dal titolo di proprietà.

Il Tribunale ha evidenziato come il ricorrente risultasse residente nell’immobile già da tempo e avesse partecipato personalmente al sopralluogo, qualificandosi come rappresentante della proprietà. Da ciò deriva, secondo la sentenza, una relazione oggettiva con il bene sufficiente a giustificare l’onere di provvedere al ripristino della legalità urbanistica e paesaggistica.

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Questa impostazione, confermata da numerose decisioni del Consiglio di Stato, sottolinea il carattere reale dell’illecito edilizio: non si guarda tanto alla responsabilità soggettiva, quanto alla possibilità concreta di ripristinare l’ordine violato.

Per il TAR, quindi, il Comune ha agito correttamente nel notificare l’ordinanza non solo alla società proprietaria, ma anche a chi aveva la disponibilità materiale dell’immobile.

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L’errore del ricorrente: abuso non sanabile

Il cuore tecnico del ricorso si fondava sull’assunto che le opere realizzate fossero varianti non essenziali o comunque interventi di modesta entità, sanabili con una semplice SCIA o rientranti nelle esclusioni previste dal regolamento edilizio comunale. In particolare, il ricorrente ha sostenuto che la chiusura del portico non avesse comportato un reale incremento di volumetria o superficie utile, trattandosi – a suo dire – di una modifica interna alle dimensioni già assentite.

Ma il TAR ha smontato questa tesi punto per punto. Ha infatti rilevato, sulla base della documentazione acquisita, che l’intervento aveva determinato la trasformazione di un portico in un vero e proprio locale abitabile, con una superficie superiore agli 80 mq.

Si è trattato, dunque, di un cambiamento sostanziale che ha inciso sia sulla funzione che sulla struttura urbanistica del fabbricato.

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La giurisprudenza, richiamata dal Collegio, è chiara: tamponare un portico e chiuderlo con infissi non equivale a un intervento secondario, ma configura la realizzazione di un nuovo ambiente autonomamente utilizzabile, con aumento del volume e del carico urbanistico. Non è quindi applicabile né l’art. 37 del DPR 380/2001, né l’art. 200 della L.R.T. 65/2014 in materia di opere minori, e nemmeno la sanatoria paesaggistica postuma di cui all’art. 167 del Codice del Paesaggio, vietata in presenza di incrementi volumetrici.

La chiusura del portico ha dunque mutato la destinazione d’uso e, nel contesto vincolato in cui si trovava l’edificio, ha comportato un illecito edilizio e paesaggistico non sanabile, che giustifica la demolizione d’ufficio.

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Una visione unitaria dell’intervento: no alle valutazioni frammentarie

Uno degli errori più comuni – e riproposto anche nel ricorso in esame – è quello di considerare separatamente ogni singolo intervento edilizio abusivo, tentando di minimizzarne l’impatto. In questo caso, il ricorrente ha cercato di far apparire la chiusura del portico e la realizzazione dei due manufatti in legno come azioni autonome, modeste, e scollegate tra loro.

Ma il TAR ha respinto con fermezza questa impostazione, ribadendo un principio sempre più presente nella giurisprudenza urbanistica: l’abuso va valutato nella sua globalità.

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Secondo il Tribunale, il danno all’assetto del territorio non deriva solo dal singolo manufatto, ma dal complesso degli interventi e dal loro effetto congiunto sul contesto edilizio e paesaggistico. Questo approccio, definito “visione unitaria dell’intervento”, ha lo scopo di impedire tentativi elusivi, come la scomposizione artificiosa delle opere al fine di farle rientrare in regimi sanzionatori più favorevoli o di evitare la demolizione.

Richiamando sentenze del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione, il TAR ha quindi ribadito che non è ammessa la frammentazione artificiale delle opere. Tutti gli interventi vanno esaminati insieme, perché solo così si può cogliere la reale trasformazione del territorio e applicare correttamente la normativa edilizia e paesaggistica.