Una sentenza del TAR Lazio ribadisce che, per interventi edilizi su immobili in comproprietà, è necessaria l’unanimità dei proprietari. Non basta una quota maggioritaria né il solo diritto di abitazione.

In ambito edilizio, la presentazione della SCIA – Segnalazione Certificata di Inizio Attività – è spesso vista come uno strumento agile per eseguire lavori di ristrutturazione o regolarizzazione di opere. Tuttavia, quando si ha a che fare con immobili in comproprietà, le cose si complicano: fino a che punto un singolo comproprietario può agire autonomamente? È sufficiente il possesso di una quota maggioritaria o serve il consenso espresso degli altri?
Una recente sentenza del TAR Lazio (n. 16066/2025) ha affrontato proprio questo nodo giuridico, chiarendo quali siano i limiti legali all’iniziativa individuale in caso di proprietà condivisa. Il caso riguardava una richiesta di sanatoria edilizia presentata da un solo comproprietario, senza la sottoscrizione degli altri. Il Comune ha ritenuto la domanda incompleta e ne ha inibito gli effetti, scatenando un contenzioso che offre spunti preziosi per cittadini, tecnici e amministratori.
Quando è davvero necessario il consenso unanime tra i comproprietari? E cosa succede se uno di loro si oppone dopo che i lavori sono stati avviati?
Sommario
La questione nasce da una richiesta di sanatoria edilizia presentata da una cittadina, comproprietaria di un immobile situato in un comune della provincia di Roma. La donna possiede una quota maggioritaria dell’edificio (4/6) e ne detiene anche il diritto di abitazione. Nel 2019 aveva presentato una SCIA per lavori di manutenzione straordinaria, successivamente integrata nel 2020 da una SCIA in sanatoria per regolarizzare alcune opere in corso.
Tuttavia, il Comune ha bloccato l’efficacia della SCIA, contestando il fatto che la documentazione fosse stata firmata solo dalla richiedente e non anche dagli altri due comproprietari, suoi figli, titolari ciascuno di una quota pari a 1/6. L’amministrazione ha quindi richiesto l’integrazione delle firme mancanti, condizione ritenuta necessaria per la validità del procedimento edilizio.
Di fronte al diniego implicito, la cittadina ha deciso di impugnare l’atto davanti al TAR, sostenendo che, in quanto titolare della maggioranza della proprietà e unica residente, fosse legittimata a presentare autonomamente la sanatoria. Da qui l’apertura del contenzioso amministrativo.
Advertisement - PubblicitàIn materia edilizia, la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) è uno strumento che consente di avviare determinati interventi senza attendere l’autorizzazione formale dell’amministrazione, a condizione che siano rispettati tutti i requisiti di legge. Tuttavia, tra questi requisiti figura anche la legittimazione soggettiva del richiedente, ovvero la titolarità giuridica dell’immobile oggetto dell’intervento.
Secondo quanto stabilito dal D.P.R. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia), il soggetto che presenta la SCIA deve dimostrare di avere la disponibilità giuridica del bene. In caso di comproprietà, questo principio si traduce nella necessità che tutti i titolari del diritto di proprietà partecipino all’istanza, oppure che vi sia tra loro un accordo implicito (il cosiddetto pactum fiduciae), che consenta a uno solo di agire per conto di tutti.
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È quindi un errore pensare che la titolarità di una quota maggioritaria o il semplice diritto di abitazione possano bastare per bypassare l’assenso degli altri comproprietari. La giurisprudenza amministrativa, negli anni, ha ribadito più volte che la tutela degli interessi dei contitolari prevale sulla volontà unilaterale, proprio per evitare che un singolo possa modificare l’immobile senza il consenso degli altri.
Advertisement - PubblicitàCon la sentenza n. 16066/2025, il TAR Lazio ha confermato che, in materia edilizia, la legittimazione a presentare una SCIA – anche in sanatoria – non può spettare a un solo comproprietario, se l’intervento riguarda l’intero immobile in comunione. Il giudice amministrativo ha rigettato il ricorso proposto dalla proprietaria di maggioranza, ribadendo che l’assenza del consenso degli altri contitolari rende inefficace la SCIA, in quanto carente di un requisito essenziale.
Il TAR ha richiamato più decisioni precedenti, tra cui quelle del TAR Campania e del TAR Lombardia, le quali affermano che “il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo deve avere la totale disponibilità del bene”, altrimenti l’intervento rischia di ledere i diritti degli altri comproprietari. Non è sufficiente essere proprietari in quota: la condivisione della proprietà implica la condivisione delle decisioni, specialmente quando si tratta di trasformazioni edilizie che modificano la natura, la destinazione o la fruibilità dell’immobile.
Elemento chiave della pronuncia è il concetto di pactum fiduciae, cioè una sorta di accordo fiduciario tra comproprietari che può legittimare l’agire del singolo in rappresentanza degli altri. Ma questo patto, come precisato dal TAR, deve risultare evidente e inequivoco: non può essere semplicemente presunto. Anzi, nel caso specifico, è stata depositata agli atti una richiesta formale da parte di uno dei comproprietari per la revoca dei titoli edilizi, segno tangibile di un dissenso che esclude qualsiasi forma di accordo tacito.
Infine, il TAR ha respinto anche l’argomentazione della ricorrente secondo cui l’opposizione del coerede sarebbe arrivata troppo tardi per essere rilevante. Il Tribunale ha ricordato che i diritti di proprietà non si prescrivono e che ogni comproprietario può farli valere in qualunque momento, soprattutto quando si tratta di tutelare la propria quota da interventi edilizi unilaterali e potenzialmente lesivi.
Advertisement - PubblicitàLa sentenza del TAR Lazio (n. 16066/2025) rappresenta un chiaro monito per chi, pur in buona fede, ritiene di poter avviare interventi edilizi su un immobile in comproprietà contando solo sulla propria quota o sul proprio uso esclusivo dell’abitazione. La giurisprudenza amministrativa, ancora una volta, ribadisce che la condivisione della proprietà impone decisioni condivise, anche per operazioni apparentemente semplici come una sanatoria o la presentazione di una SCIA.
Per i tecnici incaricati della progettazione o della gestione burocratica degli interventi edilizi, questa pronuncia rafforza l’obbligo di verificare preliminarmente la titolarità e la composizione della proprietà, accertando che tutti i comproprietari abbiano sottoscritto la documentazione. In assenza di firme, o in presenza di disaccordi anche solo potenziali, la pratica è a rischio annullamento o sospensione.
Per i Comuni, invece, la sentenza consolida la legittimità e il dovere di richiedere il consenso unanime prima di rilasciare titoli abilitativi su beni indivisi. L’amministrazione non solo può, ma deve, accertare che chi presenta l’istanza abbia un titolo giuridicamente valido e non contrasti con i diritti degli altri contitolari.
Infine, per i cittadini, il messaggio è chiaro: la comunione dei beni impone il dialogo. Agire da soli, anche se si è in possesso della quota maggioritaria o si vive nella casa in questione, non è sufficiente. Senza il consenso degli altri comproprietari, qualsiasi intervento edilizio rischia di trasformarsi in un contenzioso, con tempi lunghi, costi legali e – come in questo caso – sconfitta in giudizio.
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