Il TAR Lombardia ha accolto una sanatoria edilizia per un sottotetto, affermando che un’altezza superiore ai 2,40 metri è ammissibile se non modifica la sagoma dell’edificio.

Il recupero dei sottotetti ai fini abitativi è da anni uno degli strumenti più utilizzati – ma anche più discussi – nell’ambito della rigenerazione urbana. Tuttavia, dietro a quella che può sembrare una semplice ristrutturazione si celano spesso ostacoli normativi e interpretativi, soprattutto quando si tenta di regolarizzare opere già eseguite attraverso una richiesta di sanatoria.
In Lombardia, la Legge Regionale 12/2005 ha fissato regole precise su come e quando è possibile rendere abitabili questi spazi, ponendo limiti stringenti soprattutto in termini di altezza media ponderale. Una recente sentenza del TAR Lombardia (n. 3058/2025), però, ha ribaltato l’approccio tradizionale: ha infatti stabilito che un’altezza interna superiore ai 2,40 metri può essere ammessa, se il recupero avviene senza modificare la sagoma dell’edificio.
Una decisione destinata ad aprire nuovi scenari per tecnici, cittadini e amministrazioni: ma quali erano i fatti del caso? Quali norme sono state interpretate diversamente? E cosa potrebbe cambiare, da ora in avanti, per chi vuole regolarizzare il proprio sottotetto?
Sommario
Tutto ha avuto inizio con una richiesta di sanatoria edilizia presentata al Comune di Milano per regolarizzare alcuni interventi effettuati su un locale sottotetto collegato a un’unità abitativa. Le opere consistevano, in sintesi, nell’aumento dell’altezza interna fino a 2,60 metri, nella realizzazione di due camere da letto mediante modifiche interne e nell’ampliamento di alcune aperture, al fine di garantire i requisiti aeroilluminanti previsti per l’abitabilità.
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Il punto chiave è che non erano stati alterati né il profilo della copertura né le linee di colmo e di gronda dell’edificio: tutto era avvenuto all’interno del volume esistente. Nonostante ciò, il Comune ha rigettato la richiesta, motivando il diniego con il fatto che l’altezza media ponderale raggiunta – superiore a 2,40 metri – sarebbe in contrasto con le disposizioni della Legge Regionale 12/2005. Oltre al diniego, l’amministrazione ha anche ordinato la demolizione delle opere considerate abusive, entro 90 giorni.
I proprietari hanno quindi impugnato il provvedimento davanti al Tribunale Amministrativo Regionale, sostenendo che l’interpretazione delle norme regionali fosse eccessivamente rigida e che il loro intervento non alterasse l’equilibrio urbanistico né violasse lo spirito della legge.
Advertisement - PubblicitàIl fulcro normativo della vicenda ruota attorno agli articoli 63 e 64 della Legge Regionale Lombardia n. 12/2005, che disciplinano il recupero abitativo dei sottotetti.
L’art. 63, comma 6, stabilisce che il recupero è consentito a condizione che sia garantita, per ogni singola unità immobiliare, un’altezza media ponderale minima di 2,40 metri. Questo valore rappresenta già una deroga rispetto alla normativa nazionale (D.M. Sanità 5 luglio 1975), che per i locali abitativi richiede un’altezza minima di 2,70 metri.
L’art. 64, invece, consente – solo in determinati casi – la modifica delle altezze di colmo, di gronda e delle pendenze del tetto al fine di raggiungere proprio i 2,40 metri di altezza media. Tuttavia, questi interventi sono ammessi esclusivamente negli edifici che non superano le altezze massime previste dallo strumento urbanistico comunale.
La difficoltà interpretativa nasce qui: secondo l’approccio restrittivo finora adottato da molti Comuni (incluso Milano), i 2,40 metri andrebbero letti non solo come altezza minima, ma anche come massima, rendendo non ammissibili sanatorie in cui questa misura viene superata, anche se senza alcun innalzamento esterno dell’edificio.
Advertisement - PubblicitàFino ad oggi, una consolidata interpretazione – sostenuta anche da precedenti sentenze del Consiglio di Stato e di diversi TAR – ha letto gli articoli 63 e 64 della L.R. 12/2005 in modo estremamente rigoroso: l’altezza media ponderale di 2,40 metri è stata considerata sia il limite minimo che quello massimo per rendere abitabile un sottotetto, indipendentemente dal fatto che vi siano o meno modifiche strutturali all’involucro dell’edificio.
Questo approccio ha portato a numerosi dinieghi nei casi in cui, come quello in esame, l’altezza fosse superiore ma ottenuta esclusivamente con interventi interni, senza modificare la sagoma né l’aspetto esterno del fabbricato. Secondo questa visione, qualunque superamento della soglia di 2,40 metri sarebbe da considerare una violazione, potenzialmente configurando una nuova costruzione piuttosto che un semplice intervento di recupero.
Una logica che, come ha osservato il TAR Lombardia, porta a conclusioni paradossali: per essere “in regola”, un cittadino che abbia un sottotetto alto 2,60 metri dovrebbe abbassarlo artificialmente per rientrare nei limiti, pur in assenza di qualunque impatto sull’assetto urbano. Un’interpretazione che, a ben vedere, peggiora le condizioni abitative e non tutela alcun interesse pubblico concreto.
Advertisement - PubblicitàCon la sentenza n. 3058/2025, il TAR Lombardia ha operato una netta revisione dell’approccio interpretativo finora dominante, riconoscendo che l’altezza media ponderale indicata dalla legge regionale va considerata solo come limite minimo, non anche massimo, quando il recupero abitativo avviene senza modifiche strutturali esterne.
Il Tribunale ha osservato che l’obiettivo della normativa è quello di evitare una “proliferazione disorganica” di sopraelevazioni, non quello di imporre una compressione artificiale dei volumi esistenti. Se un sottotetto già esistente possiede un’altezza superiore ai 2,40 metri, e il recupero avviene senza alterare le linee di colmo, gronda o pendenza della copertura, allora non si configura una nuova costruzione, ma una semplice ristrutturazione leggera, compatibile con l’istituto della sanatoria edilizia.
A sostegno di questa tesi, il TAR ha richiamato anche recenti decisioni del Consiglio di Stato, secondo cui non vi è ragione logica per vietare altezze maggiori se ottenute senza incidere sul profilo dell’edificio. Il limite massimo si applica solo quando si interviene sulla copertura, non quando si sfrutta un’altezza già disponibile all’interno del volume esistente.
Questa interpretazione evita storture e migliora le condizioni di abitabilità, senza pregiudicare l’assetto urbanistico o l’interesse pubblico.
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