Può capitare, purtroppo non raramente, di ricevere una bolletta dell’acqua da migliaia di euro, apparentemente senza spiegazione. Il panico sale, il cittadino protesta, il gestore ribatte: “i consumi risultano dal contatore”. Ma cosa succede quando quel contatore è guasto? O quando il consumo fuori scala è dovuto a una perdita occulta, magari mai rilevata per anni?

Una sentenza del Tribunale di Oristano del 12 Gennaio 2019 offre risposte importanti a queste domande. Riguarda una vicenda concreta: un utente si è visto recapitare una maxi fattura da oltre 23.000 euro, riferita a un periodo lungo sette anni, e ha contestato il tutto in tribunale.

La causa è diventata l’occasione per chiarire alcuni principi fondamentali in materia di fornitura idrica: quando l’utente è obbligato a pagare, come si calcola il dovuto in caso di errori o guasti, e quali sono i doveri (spesso trascurati) del gestore del servizio.

In questo articolo esploreremo cosa è successo, cosa ha deciso il giudice e – soprattutto – quali implicazioni ha questa pronuncia per tutti coloro che, oggi o domani, si trovano a contestare una bolletta “fuori controllo”.

Hai mai ricevuto una bolletta anomala? Sai davvero come si calcola il consumo idrico e quando puoi legittimamente contestarlo?

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Una bolletta da 23.000 euro per sette anni di consumi: cosa è successo?

Tutto ha inizio quando un utente domestico riceve, dopo anni di apparente silenzio, una fattura di conguaglio da oltre 23.000 euro per consumi idrici riferiti a un lunghissimo arco temporale: dal 2006 al 2013. Il dato di consumo totale indicato? Ben 12.373 metri cubi d’acqua. Una cifra enorme per una famiglia composta da quattro persone.

Il problema principale, come spesso accade, è l’assenza di letture regolari nel corso degli anni. Dopo alcune bollette in acconto arrivate nel 2010, l’utente non riceve più alcuna comunicazione fino al 2014, quando arriva l’addebito finale. Nel frattempo, a seguito di controlli privati, erano state scoperte e riparate due perdite occulte nell’impianto: una nel tubo di adduzione, l’altra sul fondo della cisterna dell’abitazione.

Sentendosi vittima di un errore, l’utente si era rivolto al gestore contestando sia la validità della fattura che il corretto funzionamento del contatore, lamentando anche il mancato invio di bollette regolari, l’omessa manutenzione e la mancata segnalazione di consumi anomali da parte del fornitore. A fronte del rischio di distacco della fornitura, aveva infine promosso un ricorso d’urgenza, ottenendo un primo provvedimento cautelare a suo favore.

La vicenda è così finita in tribunale, dove il giudice ha dovuto rispondere a domande decisive: l’utente deve pagare l’intera somma? Chi ha il dovere di dimostrare l’attendibilità dei dati di consumo? E quando si ha diritto alla restituzione di quanto già versato?

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L’obbligo di pagare resta, ma l’importo può essere ricalcolato: cosa dice la legge

Uno degli aspetti più interessanti della sentenza riguarda un principio giuridico tanto chiaro quanto poco conosciuto: anche quando l’utente subisce un addebito anomalo e riesce a dimostrare che il contatore non funzionava correttamente o che vi erano perdite occulte, l’obbligo di pagamento non viene meno. Ciò che cambia è il modo in cui il corrispettivo viene determinato.

Il Tribunale spiega infatti che, in caso di consumi abnormi non giustificati, si può e si deve ricorrere a criteri presuntivi per calcolare quanto effettivamente dovuto. Si tratta di metodi alternativi alla misurazione diretta: si può far riferimento ai consumi storici (quando disponibili), oppure – in mancanza di dati concreti – ai consumi medi ISTAT per utenze simili, in base al numero di persone nel nucleo familiare e alla destinazione d’uso (ad esempio, domestica).

Questo orientamento, già consolidato in giurisprudenza, è stato qui ribadito con forza: “Quello che cambia è soltanto il modo di determinare il corrispettivo della somministrazione, e non l’obbligo di pagarlo.”

In altre parole, il gestore non può pretendere somme sproporzionate se non riesce a dimostrare con certezza i consumi reali, ma l’utente non può semplicemente rifiutarsi di pagare: resta il debito, che andrà ridimensionato e ricalcolato secondo logica e giustizia.

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Chi deve dimostrare cosa? l’onere della prova tra contatore guasto e consumi sospetti

In una controversia come questa, la domanda più delicata è: a chi spetta dimostrare la correttezza o l’errore nei consumi fatturati? La sentenza chiarisce questo punto in modo netto, seguendo un orientamento già tracciato dalla Corte di Cassazione.

Il gestore del servizio idrico ha l’onere di provare due cose fondamentali:

  1. il corretto funzionamento del contatore installato presso l’utente;
  2. la corrispondenza tra i consumi registrati e quelli fatturati.

Dall’altro lato, l’utente che contesta i consumi anomali deve dimostrare che l’anomalia è dovuta a cause esterne non imputabili a lui, come una perdita occulta impossibile da rilevare, oppure un difetto dell’impianto non visibile nonostante un controllo regolare e diligente.

Nel caso concreto, il giudice ha valorizzato l’esito della consulenza tecnica d’ufficio: il contatore è risultato effettivamente difettoso, con errori di misura superiori ai limiti di tolleranza ammessi. Inoltre, i tubi domestici non avevano la portata fisica necessaria a giustificare i volumi fatturati. Il gestore, dal canto suo, non ha prodotto elementi sufficienti a dimostrare la correttezza dei consumi addebitati.

Questa dinamica chiarisce un principio cruciale: il credito del gestore non è “blindato” dalla lettura del contatore, ma deve essere sostenuto da prove verificabili. Se il contatore è inattendibile, il giudice può e deve ricostruire i consumi con altri strumenti.

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Letture mancate e bollette in ritardo: responsabilità del gestore, ma senza sconti sul dovuto

Uno degli argomenti centrali sollevati dall’utente in giudizio riguarda la condotta negligente del gestore. Per anni, infatti, non sono state effettuate le letture del contatore e non sono state inviate le fatture nei tempi stabiliti dal regolamento del servizio idrico. Solo nel 2014, dopo un lunghissimo silenzio, l’utente ha ricevuto una maxi bolletta retroattiva, riferita a sette anni di consumi.

Secondo il gestore, questa condotta non giustifica il mancato pagamento. Il giudice, però, riconosce che le omissioni violano precisi obblighi contrattuali: il regolamento del servizio idrico e la carta dei servizi prevedono infatti che il gestore effettui almeno due letture l’anno e segnali tempestivamente eventuali consumi anomali, specialmente se superiori di tre volte rispetto alla media storica.

Nonostante ciò, la sentenza chiarisce che queste violazioni non cancellano né riducono automaticamente l’obbligo di pagamento da parte dell’utente. Il principio espresso è che il corrispettivo dovuto non può essere ridotto sulla base del comportamento scorretto del creditore (cioè il gestore), perché la norma che prevede il concorso di colpa (art. 1227 c.c.) si applica solo al risarcimento del danno, non all’obbligo di pagamento per un servizio effettivamente ricevuto.

In sintesi: il gestore può aver sbagliato, ma ciò non giustifica il mancato pagamento dell’acqua effettivamente consumata. Tuttavia, se le letture sono state omesse e il contatore risulta inaffidabile, il giudice può intervenire per rideterminare l’importo, come avvenuto in questo caso.

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Dai 23.000 euro a 1.524 euro: il consumo va ricostruito secondo logica e statistica

Una volta accertato che il contatore era difettoso e che mancavano letture regolari, il giudice ha affidato a un consulente tecnico d’ufficio (CTU) il compito di ricostruire il consumo reale per il periodo in questione, cioè dal luglio 2009 al giugno 2014. La consulenza si è rivelata decisiva.

Il tecnico ha prima verificato che il contatore installato non rispettava i margini di tolleranza ammessi e che la portata fisica dell’impianto domestico non era compatibile con i volumi fatturati. Successivamente, non potendo contare su letture storiche attendibili, ha adottato un criterio presuntivo basato sui dati ISTAT relativi al consumo medio annuo di acqua per una famiglia di quattro persone nella provincia interessata.

Il risultato? Un consumo medio giornaliero stimato in 0,55 metri cubi, pari a 199,20 metri cubi all’anno. Applicando a questi valori le tariffe in vigore, aggiornate anno per anno (inclusi i costi di depurazione, fognatura e quota fissa), il corrispettivo complessivo dovuto dall’utente è stato determinato in 1.524,06 euro.

Una cifra radicalmente inferiore rispetto ai 23.000 euro inizialmente richiesti. E poiché l’utente aveva già versato oltre 3.600 euro in acconti e saldi, il tribunale ha riconosciuto in suo favore il diritto alla restituzione di 2.127,84 euro, oltre agli interessi legali.

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La decisione finale del tribunale: importo ridotto, rimborso riconosciuto, gestore condannato

Alla luce di tutte le risultanze emerse nel corso del giudizio – consulenza tecnica, documenti, comportamento delle parti – il tribunale ha emesso una sentenza chiara e articolata, che definisce con precisione le responsabilità e le conseguenze economiche per entrambe le parti.

Le conclusioni principali sono tre:

  1. Il credito del gestore viene ridotto: il giudice ha dichiarato che il fornitore non ha diritto a pretendere più di 1.524,06 euro, somma già versata dall’utente, e che tutte le richieste superiori sono da considerarsi infondate.
  2. L’utente ha diritto al rimborso: poiché aveva versato complessivamente oltre 3.600 euro, il giudice ha condannato il gestore alla restituzione di 2.127,84 euro, come ripetizione d’indebito, cioè per somme pagate senza giusta causa.
  3. Condanna alle spese: il gestore è stato condannato anche a rimborsare le spese legali e quelle della consulenza tecnica, per un totale di oltre 5.800 euro. Un’ulteriore conferma della fondatezza della posizione dell’utente e della scarsa affidabilità delle pretese iniziali del fornitore.

La sentenza rappresenta un chiaro richiamo ai gestori del servizio idrico: non è sufficiente inviare bollette cumulative dopo anni, senza letture regolari e con contatori difettosi. Serve trasparenza, correttezza e documentazione attendibile. In mancanza, si rischia di perdere anche il credito legittimo.