La sentenza chiarisce i limiti della ristrutturazione edilizia in aree vincolate, escludendo il silenzio assenso per demolizioni e ricostruzioni non fedeli, in base alla normativa vigente al momento.
Quando si può davvero parlare di “ristrutturazione edilizia” e quando, invece, l’intervento configura una nuova costruzione? La distinzione, all’apparenza tecnica, ha risvolti decisivi nel diritto edilizio, soprattutto in presenza di vincoli paesaggistici. Una recente sentenza del Consiglio di Stato chiarisce definitivamente un nodo interpretativo che ha fatto discutere amministrazioni, tecnici e imprese: è possibile demolire e ricostruire edifici agricoli su sedime diverso se l’area è tutelata?
Nel caso esaminato, un Comune marchigiano aveva annullato in autotutela il presunto silenzio assenso formatosi sulla richiesta di permesso di costruire presentata da una società agricola. La società aveva ottenuto un parere favorevole della Soprintendenza, ma il Comune aveva respinto la richiesta ritenendo l’intervento non conforme alla normativa edilizia vigente.
Il Consiglio di Stato, ribaltando una precedente sentenza del TAR, ha accolto il ricorso del Comune, confermando una lettura rigorosa dell’art. 3 del Testo Unico dell’Edilizia. Ma cosa cambia davvero per chi opera in ambiti sottoposti a vincoli paesaggistici? E in quali casi è ancora possibile usufruire del silenzio assenso o progettare demolizioni e ricostruzioni in campagna?
Sommario
Tutto parte da un progetto edilizio in zona agricola, presentato da una società per la realizzazione di tre capannoni destinati all’allevamento zootecnico di carni bianche. L’intervento proposto consisteva nella demolizione e ricostruzione di vecchie stalle rurali ormai collabenti (cioè in rovina), con edifici di pari volumetria ma su un’area di sedime diversa.
La richiesta era stata inoltrata al Comune nel dicembre 2020, facendo leva sull’art. 3, comma 1, lettera d) del DPR 380/2001, che disciplina la cosiddetta “ristrutturazione edilizia”. La società, inoltre, aveva richiesto e ottenuto l’autorizzazione paesaggistica, ottenendo un parere favorevole dalla Soprintendenza.
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Trascorso inutilmente il termine per la risposta del Comune, l’impresa aveva invocato il silenzio assenso, chiedendo il rilascio dell’attestazione formale. Tuttavia, nel febbraio 2022, il Comune ha respinto l’istanza e annullato in autotutela il procedimento, escludendo la possibilità di configurare l’intervento come ristrutturazione, in quanto in contrasto con i vincoli paesaggistici e le norme urbanistiche locali.
Ne è seguito un primo ricorso della società al TAR, che le aveva dato ragione. Ma il Comune ha deciso di appellarsi al Consiglio di Stato, con esiti diametralmente opposti.
Advertisement - PubblicitàIl cuore del contenzioso ruota intorno a due concetti fondamentali del diritto edilizio: la definizione di “ristrutturazione edilizia” e i limiti all’applicabilità del silenzio assenso quando l’intervento ricade in aree vincolate.
La società richiedente riteneva che il proprio progetto rientrasse pienamente nella definizione di ristrutturazione edilizia così come modificata dal Decreto Semplificazioni (D.L. 76/2020). In particolare, sosteneva che il vincolo paesaggistico presente sull’area non fosse sufficiente a impedire la ricostruzione su un diverso sedime, visto che gli edifici non erano sottoposti a vincolo diretto e avevano già ottenuto il via libera paesaggistico.
Il Comune, al contrario, ha respinto questa lettura, sostenendo che l’intervento — per la sua traslazione su altro sedime e le modifiche planivolumetriche — non potesse essere qualificato come semplice ristrutturazione. La normativa edilizia, infatti, non consente il silenzio assenso in presenza di vincoli paesaggistici rilevanti. Inoltre, l’area ricadeva sotto la tutela dell’art. 136 del Codice dei Beni Culturali, che impone un regime particolarmente restrittivo.
Questo conflitto ha messo in evidenza una lacuna interpretativa sulla portata delle modifiche legislative del 2020 e del 2022: fino a che punto è lecito “spostare” e modificare un edificio in area vincolata, mantenendo la qualifica di ristrutturazione edilizia?
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Advertisement - PubblicitàCon la sentenza n. 5593/2023, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello del Comune, ribaltando la precedente decisione del TAR. I giudici hanno affermato con chiarezza che, alla data della presentazione della domanda edilizia (dicembre 2020), non era ancora in vigore il regime normativo che consente una maggiore flessibilità nella ristrutturazione edilizia anche in zone vincolate.
Secondo il Collegio, la normativa introdotta con il D.L. 76/2020 ha ampliato la definizione di ristrutturazione edilizia, includendo anche demolizioni e ricostruzioni con sagoma, sedime e volumetrie differenti. Tuttavia, questa apertura non si applicava alle aree sottoposte a vincolo paesaggistico ai sensi dell’art. 136 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.lgs. 42/2004), come nel caso in esame. In quelle zone, gli interventi dovevano essere strettamente “fedeli” all’edificio originario per essere qualificati come ristrutturazione e non come nuova costruzione.
Inoltre, il Consiglio di Stato ha chiarito un punto essenziale: il parere favorevole della Soprintendenza e l’autorizzazione paesaggistica non bastano a far decadere i vincoli edilizi. L’assentibilità dell’intervento deve essere valutata anche dal punto di vista urbanistico e del rispetto delle norme del Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001). Dunque, due procedimenti paralleli — quello paesaggistico e quello edilizio — che non possono essere confusi né sovrapposti.
Altra precisazione fondamentale riguarda il silenzio assenso. La società sosteneva che il Comune, non avendo risposto entro i termini, fosse tenuto a riconoscere l’assenso tacito. Ma il Consiglio ha ribadito che, nei casi in cui l’intervento ricade in aree vincolate ex art. 136, il silenzio assenso non si forma. Anzi, la stessa normativa edilizia lo esclude esplicitamente per gli interventi soggetti a vincolo paesaggistico di questo tipo.
Infine, il giudice ha sottolineato un principio interpretativo ormai consolidato: le modifiche legislative in materia edilizia non si applicano retroattivamente, salvo esplicita previsione. In questo caso, la successiva apertura normativa del 2022 — che consente una maggiore libertà di ricostruzione anche in alcune aree vincolate — non può valere per un procedimento avviato nel 2020. Vale il principio del tempus regit actum: si applicano le norme vigenti al momento della domanda.
Advertisement - PubblicitàLa sentenza ha importanti ricadute operative su tutto il comparto edilizio, in particolare per i progettisti e le imprese che operano in zone rurali e aree soggette a vincolo paesaggistico. Il punto centrale della decisione è che, nei casi in cui un’area sia tutelata ai sensi dell’art. 136 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, non è sufficiente aver ottenuto un parere favorevole dalla Soprintendenza per procedere alla demolizione e ricostruzione di edifici con caratteristiche differenti da quelle originarie.
In tali contesti, infatti, la normativa edilizia impone vincoli molto più stringenti rispetto alle aree tutelate ai sensi del successivo art. 142, e ciò vale in modo particolare per gli interventi che prevedano modifiche di sagoma, volumetria, sedime o caratteristiche tipologiche.
Il Consiglio di Stato ha chiarito che l’ampliamento del concetto di ristrutturazione edilizia, introdotto dapprima dal D.L. 76/2020 e successivamente modificato con il D.L. 17/2022 (convertito dalla legge n. 34/2022), non può applicarsi retroattivamente. Pertanto, le domande di permesso di costruire presentate prima dell’entrata in vigore di tali modifiche devono essere valutate secondo la disciplina previgente. In altre parole, l’intervento proposto dalla società ricadeva ancora sotto il regime restrittivo che qualificava come “nuova costruzione” ogni operazione di demolizione e ricostruzione in area vincolata, qualora non vi fosse una corrispondenza esatta con il manufatto preesistente.
Per i tecnici progettisti, ciò comporta la necessità di svolgere un’attenta istruttoria preliminare che non si limiti alla sola verifica della compatibilità paesaggistica, ma che consideri con rigore anche la pianificazione urbanistica comunale, le disposizioni del Testo Unico dell’Edilizia e le eventuali normative regionali. Occorre, in particolare, saper distinguere tra vincoli diretti (che gravano sull’immobile) e vincoli indiretti (che interessano l’area), poiché solo i primi consentono — in certi casi — una più ampia libertà progettuale.
Per i Comuni, la sentenza rafforza il principio secondo cui l’autorizzazione paesaggistica e il rilascio del permesso di costruire sono procedimenti distinti e autonomi. Anche a fronte di un parere favorevole della Soprintendenza, l’amministrazione locale mantiene il potere-dovere di valutare la conformità urbanistico-edilizia dell’intervento, potendo intervenire anche in autotutela qualora ravvisi l’illegittimità del silenzio assenso o la mancata compatibilità con il piano regolatore comunale.
Le imprese agricole sono chiamate a una maggiore cautela: la possibilità di rinnovare vecchi edifici rurali con demolizione e ricostruzione è soggetta a limiti normativi precisi, specie quando l’intervento interessa aree tutelate da vincolo paesaggistico. È fondamentale verificare non solo se l’immobile sia vincolato, ma in base a quale articolo del Codice Urbani lo sia, poiché da ciò dipende la possibilità — o meno — di proporre interventi non fedelmente ricostruttivi.
In definitiva, la sentenza riafferma il principio della legalità edilizia, sottolineando che la rigenerazione del patrimonio edilizio rurale deve avvenire nel pieno rispetto dei vincoli paesaggistici e delle regole urbanistiche, e che le semplificazioni normative non possono essere applicate in modo indiscriminato.
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