La sentenza del TAR chiarisce i limiti del Decreto Salva Casa, ribadendo che le deroghe sull’altezza minima non valgono per cambi d’uso da locali accessori a residenziali.
Negli ultimi mesi, il cosiddetto Decreto Salva Casa ha suscitato grandi aspettative tra i proprietari di immobili e i tecnici del settore. Con l’obiettivo dichiarato di “liberare il potenziale abitativo” di spazi finora inutilizzati o considerati marginali — come cantine, soffitte, sottotetti — molti hanno visto nel decreto una possibilità concreta di trasformare locali accessori in unità abitative, beneficiando di nuove tolleranze sulle altezze minime e sugli standard igienico-sanitari.
Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa comincia a tracciare dei confini precisi su ciò che è consentito e su ciò che invece non rientra nel perimetro della riforma. Una recente sentenza del TAR Lombardia (n. 2861/2025) ha respinto il ricorso di due proprietari che avevano avviato una ristrutturazione con cambio di destinazione d’uso, confidando nella nuova normativa. Il cuore del problema? L’altezza interna ridotta a 2,50 metri, ritenuta non idonea a garantire il rispetto delle condizioni igienico-sanitarie previste per i locali abitativi.
Cosa dice davvero il Decreto Salva Casa in tema di altezza minima? È possibile trasformare locali non abitabili in abitazioni con una semplice SCIA? E fino a che punto il Comune può bloccare i lavori?
Vediamo cosa è accaduto e quali insegnamenti si possono trarre da questa vicenda.
Sommario
Nel caso esaminato dal TAR, i proprietari di un immobile situato in un comune lombardo avevano avviato un intervento edilizio sul piano terra dell’edificio, presentando una SCIA per ristrutturazione edilizia. L’operazione prevedeva un cambio di destinazione d’uso, trasformando alcuni locali da superfici accessorie (come cantine e spazi di sgombero) in superficie abitabile residenziale, con l’obiettivo di riqualificare energeticamente l’unità e migliorarne le condizioni generali di vivibilità.
In un primo momento, il progetto manteneva l’altezza interna di 2,70 metri nei locali principali (soggiorno, cucina, camera), abbassandola a 2,50 metri in spazi come bagno e studio. Successivamente, con una SCIA in variante, i progettisti hanno scelto di uniformare l’altezza a 2,50 metri in tutti gli ambienti, motivando la scelta con il riferimento alle nuove disposizioni contenute nel Decreto Salva Casa, e in particolare ai commi 5-bis e 5-ter dell’art. 24 del DPR 380/2001, che consentirebbero — in alcuni casi — di derogare all’altezza minima ordinaria prevista per i locali abitativi.
Il Comune, tuttavia, ha emesso un provvedimento di sospensione dei lavori, rilevando che le opere non garantivano il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, come richiesto dalla norma. Ha inoltre ritenuto non sufficiente la sola indicazione normativa riportata nella relazione tecnica, chiedendo invece un’adeguata revisione degli elaborati progettuali e una verifica puntuale dell’illuminazione e dell’aerazione naturale dei locali interessati.
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Advertisement - PubblicitàUno degli elementi più discussi del Decreto Salva Casa (D.L. 69/2024, convertito nella Legge 105/2024) è la possibilità di derogare all’altezza interna minima di 2,70 metri, da sempre considerata un requisito imprescindibile per l’abitabilità dei locali residenziali. In particolare, i commi 5-bis e 5-ter dell’art. 24 del DPR 380/2001 hanno introdotto la possibilità di asseverare la sussistenza dei requisiti igienico-sanitari anche per unità immobiliari con altezze comprese tra i 2,40 e i 2,70 metri, a condizione che l’intervento consenta un miglioramento delle condizioni esistenti.
La norma è nata con l’intento di agevolare la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, soprattutto in contesti urbani dove le caratteristiche costruttive risalenti non rispettano i parametri moderni. Tuttavia, il legislatore ha posto un vincolo chiaro: la deroga può essere applicata solo in presenza di locali già ad uso abitazione, e solo quando l’intervento produce un effettivo miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie.
Nel caso esaminato dal TAR, invece, non si trattava di locali residenziali preesistenti, ma di spazi destinati ad uso accessorio (sgombero, cantina), per i quali si chiedeva un cambio di destinazione d’uso verso l’abitativo. Qui sta la differenza sostanziale: non si può migliorare ciò che non è mai stato conforme all’abitabilità, e dunque la deroga non può operare. Di conseguenza, rimane l’obbligo di rispettare i requisiti ordinari, compresa l’altezza minima di 2,70 metri, come stabilito dal DM 5 luglio 1975.
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Advertisement - PubblicitàUno degli aspetti centrali emersi nella sentenza del TAR riguarda l’esercizio, da parte del Comune, del potere inibitorio previsto dall’art. 19 della Legge 241/1990. In base a questa norma, l’amministrazione ha la possibilità di intervenire entro 30 giorni dalla presentazione della SCIA edilizia, qualora accerti la mancanza dei requisiti o dei presupposti previsti dalla legge. Se invece la SCIA viene integrata o modificata, come nel caso di una SCIA in variante, i termini ripartono da zero.
Nel caso esaminato, il Comune ha rispettato pienamente la tempistica: a fronte della presentazione della SCIA in variante, ha comunicato il divieto di prosecuzione dei lavori entro i termini previsti, indicando puntualmente le motivazioni tecniche e normative. Ha inoltre concesso un termine di 30 giorni per la conformazione del progetto, come previsto dal terzo comma dell’art. 19.
Tuttavia, i proprietari non hanno aderito pienamente alle richieste dell’amministrazione: pur trasmettendo nuovi elaborati grafici, hanno ribadito la correttezza della propria interpretazione normativa, rifiutando di modificare il progetto in senso sostanziale. Questo comportamento — seppure legittimo sotto il profilo del diritto di difesa — ha comportato un effetto automatico: decorsi inutilmente i termini concessi per la conformazione, l’attività edilizia si è considerata vietata ex lege.
La giurisprudenza ha più volte confermato che in questi casi non è necessario un ulteriore atto formale di blocco dei lavori, poiché il divieto scatta in modo automatico. Il successivo provvedimento con cui il Comune ha dichiarato l’inefficacia della SCIA non ha quindi introdotto un nuovo diniego, ma si è limitato a dare atto della perdita di efficacia del titolo edilizio.
Advertisement - PubblicitàIl ricorso presentato contro il provvedimento comunale si articolava in tre motivi principali: la presunta tardività dell’azione inibitoria del Comune, la supposta errata interpretazione del Decreto Salva Casa, e l’illegittimità del blocco dei lavori fino alla presentazione di nuova documentazione tecnica.
Il TAR Lombardia ha però rigettato il ricorso, punto per punto, con argomentazioni chiare e fondate. In primo luogo, ha stabilito che l’azione del Comune è avvenuta nei termini previsti dalla legge, poiché il divieto di prosecuzione dei lavori è stato comunicato entro 30 giorni dalla SCIA in variante, e l’invito a conformare il progetto è stato legittimamente formulato.
In secondo luogo, il Tribunale ha evidenziato che le ricorrenti non si sono effettivamente conformate alle richieste dell’amministrazione: hanno integrato parzialmente la documentazione ma hanno mantenuto la propria linea progettuale, ritenendola pienamente conforme alla normativa. Tuttavia, come ha chiarito il TAR, non basta presentare una risposta formale o una controargomentazione: occorre modificare concretamente il progetto secondo le prescrizioni impartite, altrimenti il titolo edilizio decade.
Infine, il TAR ha sottolineato un aspetto procedurale importante: la nota comunale del 27 agosto 2024, con cui era stato disposto il blocco dei lavori, non è stata tempestivamente impugnata. Essendo un atto immediatamente lesivo, i ricorrenti avrebbero dovuto attivarsi entro i termini previsti (60 giorni), cosa che non è avvenuta. Per questo motivo, anche il terzo motivo di ricorso è stato dichiarato irricevibile per tardività.
Il risultato finale è un rigetto completo del ricorso, con una decisione che chiarisce come — in materia edilizia — le semplificazioni procedurali offerte dalla normativa non possono essere utilizzate per eludere i requisiti sostanziali, come quelli legati alla salubrità e alla sicurezza degli ambienti abitativi.
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