Il Consiglio di Stato ha confermato la legittimità della demolizione d’ufficio di opere abusive, anche senza autorizzazione, respingendo l’uso strumentale della SCIA da parte di un ex concessionario.
La gestione delle opere abusive installate su suolo pubblico è una delle tematiche più delicate e controverse nel campo dell’edilizia e del diritto amministrativo. Tra inadempienze, concessioni scadute e interventi tardivi, spesso si finisce per assistere a lunghi contenziosi tra privati e pubbliche amministrazioni. Una recente sentenza del Consiglio di Stato (n. 4653/2025) affronta in maniera netta e inequivocabile la questione della rimozione d’ufficio di manufatti realizzati senza titolo e rimasti sul posto nonostante specifiche ordinanze di demolizione.
Il caso analizzato riguarda una società che aveva ottenuto anni fa una concessione per occupare un’area verde comunale con alcune strutture leggere (pergotende, chioschi, gazebo). Tuttavia, alla scadenza della concessione, tali strutture non sono state rimosse. Il Comune, dopo aver emesso un’ordinanza di demolizione mai contestata, ha deciso – anni dopo – di intervenire direttamente con la rimozione forzata. La società ha tentato di bloccare l’intervento, invocando la possibilità di smontare autonomamente le strutture e recuperare i propri beni, ma senza successo.
Questa pronuncia offre importanti chiarimenti su temi fondamentali: è necessario un titolo abilitativo per demolire opere abusive? La presentazione di una SCIA può rallentare l’intervento dell’amministrazione? E cosa succede se il privato non adempie per anni?
Sommario
Il caso analizzato dal Consiglio di Stato ruota attorno a un’area verde situata in ambito urbano, inizialmente affidata in concessione a una società per l’installazione di un chiosco bar e alcune strutture accessorie. La concessione, tuttavia, è formalmente decaduta nel 2016, senza essere rinnovata o prorogata. Ciononostante, la società ha continuato a occupare l’area pubblica, mantenendo in loco diverse opere tra cui un gazebo tamponato, una pergotenda retrattile, un prefabbricato adibito a bagno e coperture per arredi e impianti.
Già nel 2016 l’Amministrazione aveva emesso un’ordinanza di demolizione, mai impugnata dalla società, che quindi è rimasta pienamente efficace. Questo elemento si è rivelato determinante nel giudizio: l’inottemperanza all’ordine di rimozione ha infatti giustificato, anche a distanza di anni, l’intervento d’ufficio del Comune.
Non solo: dai rilievi della Polizia Locale è emerso che, ben oltre la scadenza della concessione, l’attività commerciale era ancora attiva sull’area, senza alcun titolo legittimante.
Nel frattempo, nonostante l’assenza di diritti sull’area, la società ha anche cercato di “riattivare” la propria posizione mediante la presentazione di una SCIA edilizia, nel tentativo di rimuovere direttamente i manufatti. Un’azione che si è rivelata inefficace e che sarà al centro del prossimo paragrafo.
Advertisement - PubblicitàUno degli snodi centrali affrontati nella sentenza è la legittimità della rimozione d’ufficio delle opere abusive, anche in assenza di un progetto tecnico o di un titolo edilizio specifico. Il Consiglio di Stato ha confermato che, una volta emessa un’ordinanza di demolizione e decorso inutilmente il termine per adempiere, l’Amministrazione ha piena facoltà di intervenire direttamente, senza ulteriori autorizzazioni.
La società appellante aveva contestato l’azione del Comune, sostenendo che avrebbe voluto provvedere autonomamente alla rimozione dei beni, ritenuti smontabili e riutilizzabili altrove. Per legittimare questa possibilità, aveva presentato una SCIA nel 2020, nonostante fosse ormai priva di titolo per occupare l’area. Tuttavia, il Comune aveva già dichiarato quella SCIA inefficace, proprio perché presentata da un soggetto non più legittimato a intervenire sul bene pubblico.
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Il Consiglio ha chiarito che l’esecuzione di un’ordinanza di demolizione non richiede la presentazione di una SCIA né altro atto autorizzativo: si tratta di una conseguenza automatica del potere sanzionatorio pubblico. Qualsiasi tentativo di “ritardare” l’intervento tramite strumenti amministrativi successivi (come la SCIA) non può produrre effetti sospensivi, soprattutto se la stessa risulta priva di fondamento giuridico.
Advertisement - PubblicitàIl Consiglio di Stato è stato particolarmente severo nel valutare il comportamento della società, sottolineando come la presentazione della SCIA nel 2020 – a distanza di quattro anni dalla decadenza della concessione – rappresentasse una forma di abuso procedurale. In sostanza, il tentativo di legittimare un intervento tardivo, formalmente volto alla rimozione dei manufatti, è stato interpretato come un espediente per prolungare indebitamente la permanenza nell’area pubblica.
Il fatto che la SCIA fosse presentata da un soggetto privo di titolarità e, per giunta, in presenza di un’ordinanza di demolizione mai eseguita e mai impugnata, ha reso l’intera operazione giuridicamente irrilevante. Non solo: il Tribunale ha evidenziato come l’attivazione della SCIA avrebbe automaticamente fatto decorrere un nuovo termine triennale per l’esecuzione della rimozione, creando un effetto sospensivo del tutto inammissibile a vantaggio di chi, di fatto, non aveva più alcun diritto sull’area.
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Il Collegio ha quindi ritenuto che il ricorso a questa procedura, apparentemente legittima, costituisse un uso distorto di uno strumento previsto per tutt’altri fini, con l’obiettivo di ostacolare l’azione repressiva della pubblica amministrazione. Un monito, questo, anche per i tecnici e i professionisti che assistono soggetti privati in situazioni analoghe.
Advertisement - PubblicitàUno degli ultimi tentativi della società per bloccare la rimozione d’ufficio ha riguardato la fonte di finanziamento dell’intervento comunale. La tesi sostenuta dall’appellante era che i fondi utilizzati provenissero da un capitolo di bilancio destinato alla manutenzione degli edifici pubblici, e che ciò potesse compromettere altre attività prioritarie del Comune. Tale argomentazione è stata però respinta in modo netto dal Consiglio di Stato.
I giudici hanno infatti ribadito che il soggetto privato non è legittimato a interferire con le scelte contabili e organizzative della pubblica amministrazione, né può utilizzare come argomento giuridico la tutela di un interesse pubblico generale che, per sua natura, è rimesso esclusivamente alla valutazione dell’ente. L’obbligo di rimozione di opere abusive – soprattutto quando esiste un’ordinanza definitiva non impugnata – prevale su qualsiasi altra considerazione interna all’ente, compreso il vincolo di spesa su specifici capitoli di bilancio.
Inoltre, il Collegio ha chiarito che la società non ha mai ottemperato spontaneamente all’ordine di demolizione, nonostante fosse in grado di farlo quando ancora era concessionaria. Le presunte difficoltà economiche del Comune non possono dunque giustificare ulteriori dilazioni o interferenze da parte del privato.
L’unico spazio riconosciuto al destinatario del provvedimento è la facoltà di contestare, dopo l’intervento, la congruità dei costi addebitati. Ciò avverrà in una fase successiva, con valutazione ex post, e solo se emergono elementi concreti di sproporzione o irregolarità nella rendicontazione delle spese. Ma non è possibile bloccare preventivamente l’azione dell’ente sulla base di pretesti legati alla gestione del bilancio.
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