La sentenza ribadisce i limiti del condono edilizio: non è possibile sanare immobili privi dei requisiti igienico-sanitari minimi, riaffermando il primato della tutela della salute come valore costituzionale.
Una recente sentenza del Consiglio di Stato ha riacceso l’attenzione sul tema del condono edilizio e sui suoi limiti. Al centro della vicenda vi è un locale seminterrato a Napoli, per il quale era stata presentata domanda di sanatoria come laboratorio artigianale.
La richiesta, respinta dal Comune e poi dal TAR, è arrivata fino al Consiglio di Stato, che ha confermato l’impossibilità di regolarizzare l’immobile. Il punto decisivo? L’altezza insufficiente del locale rispetto ai requisiti minimi di salubrità stabiliti dal Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.
Questa decisione offre spunti importanti: quali sono i margini reali del condono edilizio? È possibile sanare un immobile se non rispetta le norme di igiene e sicurezza?
E soprattutto, fino a che punto può spingersi un Comune nel valutare queste condizioni?
Sommario
La controversia nasce da una richiesta di condono edilizio presentata per un locale seminterrato, situato sotto un edificio residenziale a Napoli, che al momento della domanda era stato dichiarato come laboratorio di panetteria. L’Amministrazione comunale, dopo aver esaminato la pratica, ha respinto l’istanza con una disposizione dirigenziale, rilevando che l’immobile non rispettava i requisiti igienico-sanitari previsti dalla legge.
In particolare, il locale non raggiungeva l’altezza minima di tre metri prevista dal d.lgs. 81/2008 per gli ambienti di lavoro, elemento ritenuto ostativo alla sanatoria. Oltre al diniego, è stato emesso anche un ordine di demolizione delle opere realizzate senza titolo.
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La proprietaria ha contestato tale decisione sostenendo due punti principali: da un lato, che la verifica delle condizioni di igiene e salubrità spettasse non al Comune ma esclusivamente all’ASL, la quale avrebbe potuto valutare anche eventuali deroghe; dall’altro, che l’uso originario del locale, box auto e deposito, fosse diverso da quello indicato nella domanda e avrebbe permesso la regolarizzazione.
Il TAR della Campania, con una prima sentenza, ha respinto queste argomentazioni, ritenendo legittimo l’operato del Comune. La ricorrente ha quindi proposto appello al Consiglio di Stato, chiedendo la riforma della decisione e la possibilità di ottenere la sanatoria.
Advertisement - PubblicitàIl cuore della vicenda riguarda due questioni strettamente connesse: la destinazione d’uso da considerare ai fini del condono e le competenze nella verifica dei requisiti igienico-sanitari.
Sul primo punto, la proprietaria sosteneva che il Comune avrebbe dovuto valutare la sanabilità del locale in base all’uso originario – box auto e deposito – e non a quello dichiarato nella domanda di condono, cioè panetteria. Il Consiglio di Stato ha invece chiarito che, in situazioni di abuso edilizio, ciò che conta è la destinazione indicata al momento della richiesta di sanatoria.
Ogni uso precedente, infatti, è irrilevante, perché l’immobile, costruito senza titolo, si trova in una condizione di “illegalità” che viene sanata solo attraverso il procedimento di condono.
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Sul secondo punto, la difesa dell’appellante riteneva che spettasse esclusivamente all’ASL pronunciarsi sull’idoneità igienico-sanitaria del locale. Il Consiglio di Stato, invece, ha ribadito che il Comune, nell’ambito della valutazione della domanda di condono, non solo è legittimato, ma è tenuto a verificare il rispetto delle norme di legge, compresi i requisiti di salubrità e sicurezza fissati dal d.lgs. 81/2008.
In particolare, il requisito dell’altezza minima di tre metri per i locali destinati ad attività lavorative rappresenta un parametro inderogabile, essendo posto a tutela della salute dei lavoratori.
Advertisement - PubblicitàIl Consiglio di Stato, tramite la sentenza 7006/2025, ha ritenuto infondati tutti i motivi di appello e ha confermato la legittimità del diniego comunale. In primo luogo, ha chiarito che la destinazione d’uso da prendere in considerazione è quella indicata dal richiedente nella domanda di condono, non quella originaria dell’immobile. Nel caso specifico, essendo stata richiesta la sanatoria come laboratorio artigianale di panetteria, il Comune era tenuto a valutare la compatibilità del locale con tale utilizzo.
L’uso precedente come deposito o box auto è stato ritenuto irrilevante.
I giudici hanno poi ribadito un principio consolidato: spetta al privato dimostrare la sussistenza dei presupposti per la condonabilità dell’opera, compresa la data di realizzazione dell’abuso e l’effettiva destinazione d’uso. Solo il proprietario, infatti, può fornire documenti o elementi probatori idonei a radicare la certezza dei fatti. In mancanza di prove, l’Amministrazione non può che rigettare la domanda.
Un ulteriore nodo affrontato riguarda le competenze tra Comune e ASL. L’appellante sosteneva che solo l’azienda sanitaria potesse valutare le condizioni igienico-sanitarie del locale e autorizzare eventuali deroghe. Il Consiglio di Stato ha invece sottolineato che il Comune, nel procedimento di condono, non solo ha il potere, ma anche il dovere di verificare il rispetto delle norme primarie, comprese quelle poste a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Il Collegio ha richiamato sia la propria giurisprudenza sia la Corte costituzionale, evidenziando che il condono edilizio ha natura eccezionale e non può estendersi al punto da derogare a norme di rango primario. In altre parole, un immobile che non rispetta requisiti essenziali di igiene e salubrità – come l’altezza minima di tre metri stabilita dal d.lgs. 81/2008 – non è in alcun modo sanabile per la destinazione d’uso richiesta.
Questo perché la tutela della salute pubblica è un principio di rango costituzionale, che prevale su ogni altra esigenza, compresa quella di regolarizzare abusi edilizi.
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