Nell’ambito delle trasformazioni edilizie, la linea che separa la legittimità amministrativa dall’abusivismo può diventare sottile, soprattutto quando entrano in gioco titoli edilizi come la SCIA alternativa al permesso di costruire. Una recente sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (n. 38/2025) ha riportato al centro del dibattito un principio cardine del diritto amministrativo: il rispetto del termine perentorio di 12 mesi per l’annullamento d’ufficio di un provvedimento illegittimo.

Il caso ha riguardato la ristrutturazione di un immobile regolarmente segnalata e autorizzata, successivamente bloccata dal Comune con una serie di atti – tra cui una demolizione – basati su rilievi che, secondo i giudici, potevano e dovevano essere rilevati tempestivamente.

Cosa succede se l’amministrazione scopre troppo tardi un presunto abuso edilizio? È possibile annullare una SCIA dopo oltre un anno dalla sua presentazione? E quali tutele ha un cittadino che ha agito secondo le regole e confidato nella legittimità del proprio titolo edilizio?

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La vicenda: SCIA, terrazze e contestazioni

Il caso ruota attorno a un immobile edificato regolarmente negli anni ’70 e successivamente oggetto di lavori di ristrutturazione per i quali la proprietaria aveva presentato, nel 2022, una SCIA alternativa al permesso di costruire. L’intervento prevedeva il frazionamento verticale di una villa in due unità abitative autonome e altre modifiche interne, tutte accompagnate da regolari nulla osta della Soprintendenza e del Genio Civile.

Contestualmente era stata depositata una CILAS (Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata Superbonus) per accedere agli incentivi fiscali legati all’efficientamento energetico e al miglioramento sismico.

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Tutto sembrava procedere nel rispetto delle norme, fino a quando, mesi dopo, a seguito di un sopralluogo della Polizia Municipale e della segnalazione di presunti abusi edilizi, il Comune ha avviato un procedimento amministrativo sfociato in una serie di provvedimenti particolarmente gravi: l’annullamento in autotutela della SCIA, la dichiarazione di inefficacia della CILAS e infine una ordinanza di demolizione.

Le contestazioni principali erano tre.

La prima e più delicata riguardava la presunta trasformazione del lastrico solare in terrazza calpestabile, ritenuta un cambio di destinazione d’uso non autorizzato. In effetti, il solaio superiore dell’edificio, secondo il Comune, non avrebbe mai avuto le caratteristiche per essere considerato una terrazza, ma solo una copertura tecnica. La presenza di scale a chiocciola interne collegate a tale spazio, raffigurate nei grafici allegati, avrebbe reso evidente l’intenzione di renderlo fruibile come parte dell’abitazione.

Tuttavia, tale interpretazione veniva contestata dalla proprietà, che sosteneva la legittimità di tale configurazione fin dalla costruzione originaria.

Il secondo rilievo riguardava l’aumento della superficie non residenziale (s.n.r.) del balcone e della terrazza prospicienti la strada, variazione considerata non coerente con quanto assentito. Infine, il terzo elemento critico era legato alla modifica della struttura di copertura del vano scala, dove – secondo l’amministrazione – sarebbe stato realizzato un solaio piano, invece della soluzione “a ginocchio” originariamente prevista.

Questo avrebbe comportato un aumento volumetrico non autorizzato, con tutte le implicazioni sanzionatorie del caso.

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In risposta, la proprietà ha tentato di regolarizzare le difformità presentando nel marzo 2024 una SCIA in variante, accompagnata anche da un’istanza di revoca del precedente annullamento. Tuttavia, anche questa soluzione è stata respinta dal Comune, che ha ribadito la sua posizione e ordinato la sospensione dei lavori.

Si è così aperta una battaglia giuridica che ha messo a confronto, da una parte, la presunta illegittimità edilizia e, dall’altra, il principio di affidamento e il rispetto dei termini procedurali da parte dell’amministrazione.

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Le ragioni del TAR: oltre i 12 mesi non si torna indietro

Il cuore della decisione del TAR risiede nell’applicazione dell’art. 21-nonies della legge 241/1990, che stabilisce in 12 mesi il termine perentorio entro cui la pubblica amministrazione può annullare in autotutela un proprio atto, anche se viziato. Secondo i giudici, il Comune avrebbe potuto rilevare tutte le presunte irregolarità sin dal momento della presentazione della SCIA, basandosi esclusivamente sulla documentazione già agli atti, senza necessità di accertamenti successivi o elementi sopravvenuti.

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Non si trattava, dunque, di un caso in cui l’Amministrazione ha “scoperto tardi” un abuso: gli elaborati grafici, l’accatastamento e i progetti tecnici erano tutti a disposizione fin dal 2022.

L’adozione dei provvedimenti di annullamento oltre il termine legale è stata quindi ritenuta illegittima. Il TAR ha sottolineato come la certezza del diritto e la tutela dell’affidamento del cittadino debbano prevalere, una volta trascorso il termine stabilito dalla legge, salvo che l’illegittimità non emerga da fatti o elementi nuovi, cosa che in questo caso non si è verificata.

Un principio giurisprudenziale ormai consolidato, ribadito anche dal Consiglio di Giustizia Amministrativa, che ha confermato la necessità di rispettare i termini proprio per evitare che la discrezionalità della P.A. si trasformi in uno strumento arbitrario di repressione postuma.